Di Angela Pellicciari
In mancanza di meglio si scrivono lettere alla memoria: all’onore del defunto Cavour che non va fatto a pezzi perché non può più sporgere querela. E allora, padani, facciamo una tregua, un armistizio, deponiamo le armi, fate quello che volete ma smettetela di mettere sotto accusa i “Padri della Patria” e ricordatevi che siamo tutti “figli di una stessa patria”. Questo strano appello al vogliamoci bene in salsa padana è rivolto da Pierluigi Battista agli “egregi signori della Padania” in una lettera immaginaria loro indirizzata dal conte di Cavour.
Gilberto Oneto, sul Giornale, risponde per le rime: eh, no! Cavour ha detto una cosa e ne ha fatta un’altra. Noi, a suo tempo, ci siamo mossi per il Regno dell’Alta Italia, non per l’Italia. Cavour non ci aveva detto come sarebbe finita!
Vogliamo accusare Cavour di mancanza di coerenza? Ma di che cosa stiamo parlando? Il conte di Cavour era il re della fantasia, del gioco, della doppiezza, dell’incoerenza, sempre e comunque. Perfino del Segretario di Stato cardinal Antonelli (e, quindi, del papa) Cavour si fa burla quando scrive che è in difesa dell’ordine morale che l’esercito sardo ha invaso i territori pontifici senza dichiarazione di guerra!
“Con quei frizzi, con quella festività onde egli sa abbellire i suoi discorsi”, diceva di lui Federico Sclopis. Cavour era uno che si divertiva. Che progettava imprese militari con spirito ilare. La conquista del Sud l’ha organizzata, non dichiarata. La guerra al cugino di Vittorio Emanuele II, la guerra a Francesco II di Borbone, in ottimi rapporti diplomatici col regno sardo, Cavour l’ha preparata nei dettagli insieme a Giuseppe La Farina, segretario della Società Nazionale, storico massone emigrato a Torino.
L’allegra macchina da guerra che ad Achille Occhetto non è riuscita, a Cavour è venuta benissimo. Ha cominciato al Congresso di Parigi del 1856: lì si è servito dell’amico lord Clarendon, plenipotenziario inglese, per mettere all’attenzione del mondo una grande questione morale: i popoli dell’Italia centrale e meridionale “gemevano” sotto il malgoverno pontificio e borbonico. Vero? Falso. Tanto falso che nonostante soldi, organizzazione, armi e quant’altro, non è stato possibile far insorgere nessuno dei popoli supposti gementi. E allora? Semplice: si trattava di mettere in cantiere un’invasione preparata col massimo scrupolo senza che nessuno lo sapesse: “Per quattro anni vidi quasi tutte le mattine il conte di Cavour –così scrive La Farina sull’Espero- senza che alcuno dei suoi amici intimi lo sapesse, andando sempre due o tre ore prima di giorno, e sortendo spesso da una scaletta segreta, ch’era contigua alla sua camera da letto, quando in anticamera era qualcuno che lo potesse conoscere!”.
Due o tre ore prima dell’alba a partire dal 1856, all’indomani della questione morale così provvidamente sollevata a Parigi! La Farina prosegue: Cavour mi aveva detto: “Venga da me quando vuole, ma pria di giorno, e che nessuno lo veda e che nessuno lo sappia. Se sarò interrogato in Parlamento o dalla diplomazia (soggiunse sorridendo) lo rinnegherò come Pietro e dirò: non lo conosco”. Non lo conosco! Proprio così. Proprio così racconta Cavour alla stampa internazionale quando è diventato difficile negare il coinvolgimento sardo nella storica impresa dei Mille. Questa la dichiarazione del governo piemontese comparsa sulla Gazzetta Ufficiale del Regno il 17 maggio 1860: “Alcuni giornali stranieri, a cui fanno eco quei fogli del paese che avversano il governo del Re e le istituzioni nazionali, hanno accusato il ministero di connivenza nell’impresa del gen. Garibaldi. La dignità del governo ci vieta di raccogliere ad una ad una queste accuse e di confutarle. Basteranno alcuni brevi schiarimenti.
Il governo ha disapprovato la spedizione del generale Garibaldi, ed ha cercato di prevenirla con tutti quei mezzi, che la prudenza e le leggi gli consentivano […] Del resto l’Europa sa che il governo del Re, mentre non nasconde la sua sollecitudine per la patria comune, conosce e rispetta i principii del diritto delle genti, e sente il debito di farli rispettare nello Stato, della sicurezza del quale ha la risponsabilità”.
Il cospiratore siciliano Giuseppe La Farina rivendica a ragione il ruolo da lui svolto nell’annessione del Regno delle Due Sicilie: “Ella vedrà –si sta rivolgendo all’amico Pietro Sbarbaro- che il concetto fu mio; che Garibaldi esitava (e ne ho documenti); e che da ultimo si decise a partire, quando vide che i siciliani sarebbero partiti senza di lui. Le armi e le munizioni furono somministrate a Garibaldi da me: egli non aveva nulla”.
Battista scherzosamente (ma non poi tanto) invita la Lega a deporre le armi esortando i padani a sospendere la guerra. Il punto è che nessuno vuole fare la guerra. Ricordare la verità storica non è fare la guerra. La guerra è stata combattuta da un’esiguissima minoranza di italiani che, disprezzando tutti gli altri (il 98% della popolazione che non aveva diritto di voto) e definendo sé stessa “liberale”, ha sconvolto la vita civile, culturale, economica e religiosa dei vari popoli d’Italia in nome di una morale superiore che credeva di incarnare.
Per fare la pace c’è bisogno di giustizia. E la giustizia esige che si smetta di raccontare menzogne. La pacificazione che tutti vogliamo non può che venire a partire dalla verità dei fatti.
Tratto da Libero
Fonte:Angela Pellicciari
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