di FRANCO SIGNORELLI
Dopo aver letto l’editoriale di Romano Bracalini
“Perché il Sud è povero ed arretrato? Ecco le cause e le colpe” ed aver
fatto sbollire la comprensibile prima reazione di dispetto alle
evidenti inesattezze sulle quali la tesi di Bracalini si fonda, ho
deciso di scrivere una concisa replica. Non per polemica, ma per amore
del lettore. Non per puntare il dito contro Bracalini e contro la
redazione de “l’Indipendenza”, che dà adito a tali macroscopiche
inesattezze, ma per far capire che, Carlo Levi docet, le parole sono
pietre. Esse hanno conseguenze e per questo bisogna misurarle
attentamente.
La storia del meridione d’Italia (bisogna sempre
ricordare infatti che si tratta di una parte della nostra Italia, non di
un posto sottosviluppato da denigrare) è talmente complessa che nessun
editoriale potrà mai delucidarla. Ciò che mi preme è unicamente dare
qualche spunto perché chi legge abbia voglia di documentarsi a fondo.
La dominazione normanna e soprattutto la sveva fecero raggiungere al Sud d’Italia
uno splendore mai più eguagliato, pur dominando anche su gran parte del
settentrione, su parte dell’odierna Val d’Aosta, Svizzera e Germania
meridionale. E ciò smentisce in maniera evidente l’affermazione di
Bracalini, secondo il quale “L’abbandono del Mezzogiorno era tale che
dalla caduta dell’impero romano all’avvento della dinastia borbonica,
non si aprì una sola strada rotabile che mettesse in comunicazione le
province fra loro e queste con la capitale”. Basta leggere
l’enciclopedia Treccani per rendersi conto che le reti di comunicazione
all’interno del regno del Sud e fra questo e gli altri stati erano ben
sviluppate per gli standard del tempo. Esse ricalcavano in parte la rete
viaria romana, com’è logico, formando in più un nuovo tessuto viario a
forma stellare composto di strade brevi, ramificate, che da tutti i
centri attivi si irradiavano in ogni direzione con una complessa
articolazione collinare, che contrastava con la regolarità e la
linearità del sistema viario romano basato su uno schema centralistico e
comprendendo inoltre altre vie di comunicazione, non solo terrestri ma
anche fluviali e marittime.
Le dominazioni angioina ed aragonese ed i vicereami asburgici e savoiardo
(ebbene sì anche la casata Savoia mise il suo zampino nel Sud ancor
prima dell’Unificazione, salvo poi scambiare la Sicilia con la
Sardegna…), segnarono purtroppo un lungo periodo di declino fra il 1266,
data della cacciata degli Svevi, e 1734, data dell’avvento al trono di
Napoli di Carlo III di Borbone. Da tener presente, però, che tale
declino non era limitato al Sud, ma interessava tutta la penisola,
frammentata e dominata in gran parte da popoli stranieri. E si trattava
di declino relativo, considerando le bellezze architettoniche edificate
in quel periodo e che ancora costellano il meridione.
In seguito, l’avvento dei Borbone segna un progresso innegabile per tutto il Regno delle due Sicilie,
che dura fino all’annessione al Regno d’Italia. I Borboni portarono il
Regno delle Due Sicilie all’avanguardia in numerosi campi, dalle lettere
alla musica e alle scienze, dall’industria al commercio e alle
telecomunicazioni, dall’agricoltura all’allevamento del bestiame, senza
trascurare il fatto che nel Meridione vi era la più alta percentuale di
medici per abitanti (1 su 958 a fronte di 1 su 1834 in Piemonte,
Luguria, Lombardia, Toscana e Romagna) smentendo l’affermazione di
Bracalini che “L’unico ceto medio che si era potuto formare era quello
degli avvocati”. Numerosi progressi sociali, un tasso di disoccupazione
tra i più bassi d’Europa, una pressione fiscale diretta ed indiretta ed
un costo della vita nettamente inferiori rispetto agli altri Stati
preunitari facevano sì che il Regno delle Due Sicilie fosse il più
popoloso della penisola e Napoli fosse di gran lunga la città più grande
d’Italia, mentre Palermo rivaleggiava con Roma e Messina aveva il
doppio degli abitanti di Reggio Emilia o di Brescia. Ciò smentisce
ancora una volta Bracalini quando scrive che “Dopo gli spagnoli, il
regime borbonico assestò al Mezzogiorno il colpo finale”. Chiunque
voglia acquisire dati obiettivi a conferma di ciò che scrivo non ha che
consultare dati e cifre del primo censimento della popolazione del Regno
d’Italia del 1861, a pochi mesi dall’Unità. Il Regno delle Due Sicilie
contava 5 milioni di occupati, di cui gran parte specializzati in vari
campi, dall’agricoltura all’industria al commercio, sul totale nazionale
di 11 milioni. Forse ancor più eloquente per chi è abituato a ragionare
in termini di “spread” risulterà la considerazione che la rendita dei
titoli di stato del Regno delle Due Sicilie nel 1860 era del 120% alla
Borsa di Parigi e che il Ducato del Regno delle Due Sicilie valeva 4.25
lire piemontesi ed era garantito in oro nel rapporto di uno ad uno,
mentre il rapporto lira/oro era di tre ad uno (ogni tre lire piemontesi
in circolazione ve ne era solo una in oro).
Il colpo di grazia al Meridione non lo hanno dato affatto i Borbone ma purtroppo i Savoia.
Il Nitti stesso, egli sì giornalista imparziale, oltre che insigne
statista, scrisse che i Savoia, mettendo fuori corso il Ducato,
triplicarono la massa monetaria incamerata con l’annessione del Sud.
Sotto i Savoia il meridione piombò in una condizione di pre-feudalesimo.
Essi introdussero in un sol colpo ben 22 nuove tasse, mentre la
pressione fiscale diretta al Sud era rimasta immutata dal 1815 al 1860,
pur aumentando le entrate fiscali in tale lasso di tempo da 16 milioni
di ducati a 30 milioni, dimostrazione incontestabile di crescita
economica. Il governo Savoia Smantellò le industrie del Sud, un esempio
per tutti le Regie Ferriere di Mongiana, in Calabria, trasferendole al
Nord, dando così inizio all’emigrazione, fenomeno assente durante il
regno borbonico, e guadagnando così nei secoli manodopera a basso costo.
Abolirono inoltre il protezionismo, aprendo il mercato a prodotti
esteri a basso costo ed ancor più bassa qualità, determinando il declino
dell’agricoltura del Sud. Smantellarono i cantieri navali e gli
arsenali e quindi la flotta mercantile che sotto i Broboni era la
seconda del mondo, dopo quella inglese. Addirittura l’industria ceramica
di Capodimonte, nota in tutto il mondo, venne quasi azzerata con
l’annessione del Regno delle Due Sicilie a quello piemontese.
Eppure la maggior parte dei meridionali hanno accettato di pagare questo prezzo altissimo all’Unità d’Italia.
Dimostrazione ne è il fatto che i più strenui difensori dell’unità
nazionale sono proprio i meridionali. Ciò che risulta insopportabile è
l’imbattersi a cadenza regolare in articoli e pubblicazioni del tenore
dell’editoriale di Bracalini, che sputano sentenze antimeridionali come
fossero verità inappuntabili.
Invito quindi il lettore a formarsi una propria opinione documentandosi a fondo.
Il web è una fonte inesauribile. Basta leggere gli scritti di Nitti,
quelli di Denis Mach Smith, consultare gli archivi dell’Ufficio Storico
della Marina Militare o dello Stato Maggiore dell’Esercito, oppure
leggere le tante pubblicazioni sul Sud e l’Unità d’Italia di Gennaro de
Crescenzo, di Giuseppe Ressa, di Mario Intrieri.
Chiunque abbia uno spirito aperto potrà rendersi conto
che la questione meridionale è molto più complessa di quanto scrive
Bracalini. E soprattutto che è profondamente sbagliato trarne spunti
antimeridionali. Siamo tutti meridionali, nel senso che la storia del
meridione è storia italiana e chi dà credito a chi denigra il meridione
in quanto tale cade in un falso storico paragonabile alla “Constitutum
Constantini”. Per dirla con Aristotele, la causa della difficoltà della
ricerca della verità non sta nelle cose, ma in noi, che chiudiamo gli
occhi alla verità come fa la nottola alla luce del giorno. Per pigrizia,
comodità, faziosità, sempre per ignoranza.
Fonte:
L'Indipendenza
di FRANCO SIGNORELLI
Dopo aver letto l’editoriale di Romano Bracalini
“Perché il Sud è povero ed arretrato? Ecco le cause e le colpe” ed aver
fatto sbollire la comprensibile prima reazione di dispetto alle
evidenti inesattezze sulle quali la tesi di Bracalini si fonda, ho
deciso di scrivere una concisa replica. Non per polemica, ma per amore
del lettore. Non per puntare il dito contro Bracalini e contro la
redazione de “l’Indipendenza”, che dà adito a tali macroscopiche
inesattezze, ma per far capire che, Carlo Levi docet, le parole sono
pietre. Esse hanno conseguenze e per questo bisogna misurarle
attentamente.
La storia del meridione d’Italia (bisogna sempre
ricordare infatti che si tratta di una parte della nostra Italia, non di
un posto sottosviluppato da denigrare) è talmente complessa che nessun
editoriale potrà mai delucidarla. Ciò che mi preme è unicamente dare
qualche spunto perché chi legge abbia voglia di documentarsi a fondo.
La dominazione normanna e soprattutto la sveva fecero raggiungere al Sud d’Italia
uno splendore mai più eguagliato, pur dominando anche su gran parte del
settentrione, su parte dell’odierna Val d’Aosta, Svizzera e Germania
meridionale. E ciò smentisce in maniera evidente l’affermazione di
Bracalini, secondo il quale “L’abbandono del Mezzogiorno era tale che
dalla caduta dell’impero romano all’avvento della dinastia borbonica,
non si aprì una sola strada rotabile che mettesse in comunicazione le
province fra loro e queste con la capitale”. Basta leggere
l’enciclopedia Treccani per rendersi conto che le reti di comunicazione
all’interno del regno del Sud e fra questo e gli altri stati erano ben
sviluppate per gli standard del tempo. Esse ricalcavano in parte la rete
viaria romana, com’è logico, formando in più un nuovo tessuto viario a
forma stellare composto di strade brevi, ramificate, che da tutti i
centri attivi si irradiavano in ogni direzione con una complessa
articolazione collinare, che contrastava con la regolarità e la
linearità del sistema viario romano basato su uno schema centralistico e
comprendendo inoltre altre vie di comunicazione, non solo terrestri ma
anche fluviali e marittime.
Le dominazioni angioina ed aragonese ed i vicereami asburgici e savoiardo
(ebbene sì anche la casata Savoia mise il suo zampino nel Sud ancor
prima dell’Unificazione, salvo poi scambiare la Sicilia con la
Sardegna…), segnarono purtroppo un lungo periodo di declino fra il 1266,
data della cacciata degli Svevi, e 1734, data dell’avvento al trono di
Napoli di Carlo III di Borbone. Da tener presente, però, che tale
declino non era limitato al Sud, ma interessava tutta la penisola,
frammentata e dominata in gran parte da popoli stranieri. E si trattava
di declino relativo, considerando le bellezze architettoniche edificate
in quel periodo e che ancora costellano il meridione.
In seguito, l’avvento dei Borbone segna un progresso innegabile per tutto il Regno delle due Sicilie,
che dura fino all’annessione al Regno d’Italia. I Borboni portarono il
Regno delle Due Sicilie all’avanguardia in numerosi campi, dalle lettere
alla musica e alle scienze, dall’industria al commercio e alle
telecomunicazioni, dall’agricoltura all’allevamento del bestiame, senza
trascurare il fatto che nel Meridione vi era la più alta percentuale di
medici per abitanti (1 su 958 a fronte di 1 su 1834 in Piemonte,
Luguria, Lombardia, Toscana e Romagna) smentendo l’affermazione di
Bracalini che “L’unico ceto medio che si era potuto formare era quello
degli avvocati”. Numerosi progressi sociali, un tasso di disoccupazione
tra i più bassi d’Europa, una pressione fiscale diretta ed indiretta ed
un costo della vita nettamente inferiori rispetto agli altri Stati
preunitari facevano sì che il Regno delle Due Sicilie fosse il più
popoloso della penisola e Napoli fosse di gran lunga la città più grande
d’Italia, mentre Palermo rivaleggiava con Roma e Messina aveva il
doppio degli abitanti di Reggio Emilia o di Brescia. Ciò smentisce
ancora una volta Bracalini quando scrive che “Dopo gli spagnoli, il
regime borbonico assestò al Mezzogiorno il colpo finale”. Chiunque
voglia acquisire dati obiettivi a conferma di ciò che scrivo non ha che
consultare dati e cifre del primo censimento della popolazione del Regno
d’Italia del 1861, a pochi mesi dall’Unità. Il Regno delle Due Sicilie
contava 5 milioni di occupati, di cui gran parte specializzati in vari
campi, dall’agricoltura all’industria al commercio, sul totale nazionale
di 11 milioni. Forse ancor più eloquente per chi è abituato a ragionare
in termini di “spread” risulterà la considerazione che la rendita dei
titoli di stato del Regno delle Due Sicilie nel 1860 era del 120% alla
Borsa di Parigi e che il Ducato del Regno delle Due Sicilie valeva 4.25
lire piemontesi ed era garantito in oro nel rapporto di uno ad uno,
mentre il rapporto lira/oro era di tre ad uno (ogni tre lire piemontesi
in circolazione ve ne era solo una in oro).
Il colpo di grazia al Meridione non lo hanno dato affatto i Borbone ma purtroppo i Savoia.
Il Nitti stesso, egli sì giornalista imparziale, oltre che insigne
statista, scrisse che i Savoia, mettendo fuori corso il Ducato,
triplicarono la massa monetaria incamerata con l’annessione del Sud.
Sotto i Savoia il meridione piombò in una condizione di pre-feudalesimo.
Essi introdussero in un sol colpo ben 22 nuove tasse, mentre la
pressione fiscale diretta al Sud era rimasta immutata dal 1815 al 1860,
pur aumentando le entrate fiscali in tale lasso di tempo da 16 milioni
di ducati a 30 milioni, dimostrazione incontestabile di crescita
economica. Il governo Savoia Smantellò le industrie del Sud, un esempio
per tutti le Regie Ferriere di Mongiana, in Calabria, trasferendole al
Nord, dando così inizio all’emigrazione, fenomeno assente durante il
regno borbonico, e guadagnando così nei secoli manodopera a basso costo.
Abolirono inoltre il protezionismo, aprendo il mercato a prodotti
esteri a basso costo ed ancor più bassa qualità, determinando il declino
dell’agricoltura del Sud. Smantellarono i cantieri navali e gli
arsenali e quindi la flotta mercantile che sotto i Broboni era la
seconda del mondo, dopo quella inglese. Addirittura l’industria ceramica
di Capodimonte, nota in tutto il mondo, venne quasi azzerata con
l’annessione del Regno delle Due Sicilie a quello piemontese.
Eppure la maggior parte dei meridionali hanno accettato di pagare questo prezzo altissimo all’Unità d’Italia.
Dimostrazione ne è il fatto che i più strenui difensori dell’unità
nazionale sono proprio i meridionali. Ciò che risulta insopportabile è
l’imbattersi a cadenza regolare in articoli e pubblicazioni del tenore
dell’editoriale di Bracalini, che sputano sentenze antimeridionali come
fossero verità inappuntabili.
Invito quindi il lettore a formarsi una propria opinione documentandosi a fondo.
Il web è una fonte inesauribile. Basta leggere gli scritti di Nitti,
quelli di Denis Mach Smith, consultare gli archivi dell’Ufficio Storico
della Marina Militare o dello Stato Maggiore dell’Esercito, oppure
leggere le tante pubblicazioni sul Sud e l’Unità d’Italia di Gennaro de
Crescenzo, di Giuseppe Ressa, di Mario Intrieri.
Chiunque abbia uno spirito aperto potrà rendersi conto
che la questione meridionale è molto più complessa di quanto scrive
Bracalini. E soprattutto che è profondamente sbagliato trarne spunti
antimeridionali. Siamo tutti meridionali, nel senso che la storia del
meridione è storia italiana e chi dà credito a chi denigra il meridione
in quanto tale cade in un falso storico paragonabile alla “Constitutum
Constantini”. Per dirla con Aristotele, la causa della difficoltà della
ricerca della verità non sta nelle cose, ma in noi, che chiudiamo gli
occhi alla verità come fa la nottola alla luce del giorno. Per pigrizia,
comodità, faziosità, sempre per ignoranza.
Fonte:
L'Indipendenza
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