mercoledì 11 aprile 2012

L’articolo 18 e il Mezzogiorno



di Ugo Grippo

Il dibattito e lo scontro con una parte del sindacato del paese sulla soppressione o meno dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori sembra risolutivo per assicurare la crescita. Ma le strade da percorrere sono ben altre.Lo stesso decreto delle liberalizzazioni, annunciato con grande enfasi dal Governo, tra condizionamenti, minacce di scioperi e conseguenti compromessi non ha prodotto quei risultati necessari per rianimare l’economia. La soppressione dell’art.18 non produrrà certo gli auspicati nuovi investimenti e quindi nuova occupazione.

In questa fase di concreta recessione si registra soltanto una perdita complessiva di
competitività determinata da mancata innovazione di processi produttivi.
Ma il governo Monti non si è posto in termini reali la necessità di intervenire nel Sud con investimenti concreti assicurando spesso finanziamenti per opere già programmate ed a volte già finanziate.
Il superamento del divario nel Paese è fondamentale e quindi la crescita del Sud, anche contro il
parere della Lega, è prioritario.
Per la prima volta un presidente della Confindustria, il neo eletto Giorgio Squinzi, senza mezzi
termini, ha il coraggio di parlare di “Centralità del Mezzogiorno”.
Del resto il Pil del Mezzogiorno, con una perdita secca negli ultimi cinque anni del ben 8%, ha
registrato un aumento del divario (-40%).

Un recente studio della Svimez ha messo in evidenza come 150 anni orsono (all’epoca dell’unità di Italia) il Sud era l’area più industrializzata del Paese con il 22,8% (percentuale riferita al
rapporto con la popolazione) rispetto al 15,5% del Centro-Nord.
Nel 1950 i Governi a guida di uomini della Dc, consapevoli di dover puntare a risolvere il
divario esistente tra le due aree geografiche del Paese, ritennero di assicurare attraverso la Cassa del Mezzogiorno risorse e professionalità di alto valore tecnico per avviare l’intervento
straordinario garantendo incentivi per nuovi investimenti e realizzazioni di opere
infrastrutturali al fine di creare nuove condizioni di sviluppo e di occupazione. Il resto lo fece l’Iri
sopperendo al mancato intervento dell’imprenditoria privata, quasi tutta nel Sud dedita all’edilizia e alla speculazione delle aree.

Ma una volta avviato il processo di privatizzazione dell’industria di Stato, al Nord vi erano
imprenditori privati che potevano assorbire ed acquisire tali aziende pubbliche,non così al Sud. Nel breve tempo di qualche anno ben 550.000 posti di lavoro nel Mezzogiorno si sono persi. Forse occorreva imprimere due velocità. Quando il Sud fu privato dell’ultimo centro direzionale delle Partecipazioni Statali, quello della Sme finanziaria, fu promessa una compensazione con la localizzazione dell’autorithy delle telecomunicazioni a Napoli.
Fu fittato parte di un grattacielo ma poi lentamente è stata trasferito il tutto a Roma
lasciando, forse, soltanto l’indirizzo legale e qualche impiegato.

E poi che dire? Dopo averci privato di una banca radicata nel Sud, il Banco di Napoli, e con la
istituzione delle fondazioni bancarie e i nostri risparmi vengono reinvestiti in Piemonte.
Si dice che oggi sia una realtà la “Banca del Mezzogiorno”, che disponga di 250 filiali dislocate
nel Sud (si tratta degli sportelli postali), che oltre alle Poste che ha comprato il Medio Credito
Centrale non ci sono altri parteners escludendo anche gli istituti di credito cooperativo.
La verità è che la Banca del Sud è una banca di secondo livello con modeste disponibilità di dotazioni (1,5 miliardi di euro) e che certo non potrà risolvere la questione meridionale.
Il ministro Barca ritiene che la responsabilità del mancato decollo al Sud sia da attribuire alla sola
classe dirigente merdionale. Noi riteniamo che esiste indubbiamente la responsabilità della classe dirigente meridionale ma anche quella del Governo e della burocrazia centrale. Un modello di sviluppo per il Sud, dove la disoccupazione è doppia rispetto al resto del Paese, non può esaurirsi sul turismo e sulla cultura. Ha bisogno di ben altro.

Fonte: Il Roma del 10 Aprile 2012 pag 1


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di Ugo Grippo

Il dibattito e lo scontro con una parte del sindacato del paese sulla soppressione o meno dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori sembra risolutivo per assicurare la crescita. Ma le strade da percorrere sono ben altre.Lo stesso decreto delle liberalizzazioni, annunciato con grande enfasi dal Governo, tra condizionamenti, minacce di scioperi e conseguenti compromessi non ha prodotto quei risultati necessari per rianimare l’economia. La soppressione dell’art.18 non produrrà certo gli auspicati nuovi investimenti e quindi nuova occupazione.

In questa fase di concreta recessione si registra soltanto una perdita complessiva di
competitività determinata da mancata innovazione di processi produttivi.
Ma il governo Monti non si è posto in termini reali la necessità di intervenire nel Sud con investimenti concreti assicurando spesso finanziamenti per opere già programmate ed a volte già finanziate.
Il superamento del divario nel Paese è fondamentale e quindi la crescita del Sud, anche contro il
parere della Lega, è prioritario.
Per la prima volta un presidente della Confindustria, il neo eletto Giorgio Squinzi, senza mezzi
termini, ha il coraggio di parlare di “Centralità del Mezzogiorno”.
Del resto il Pil del Mezzogiorno, con una perdita secca negli ultimi cinque anni del ben 8%, ha
registrato un aumento del divario (-40%).

Un recente studio della Svimez ha messo in evidenza come 150 anni orsono (all’epoca dell’unità di Italia) il Sud era l’area più industrializzata del Paese con il 22,8% (percentuale riferita al
rapporto con la popolazione) rispetto al 15,5% del Centro-Nord.
Nel 1950 i Governi a guida di uomini della Dc, consapevoli di dover puntare a risolvere il
divario esistente tra le due aree geografiche del Paese, ritennero di assicurare attraverso la Cassa del Mezzogiorno risorse e professionalità di alto valore tecnico per avviare l’intervento
straordinario garantendo incentivi per nuovi investimenti e realizzazioni di opere
infrastrutturali al fine di creare nuove condizioni di sviluppo e di occupazione. Il resto lo fece l’Iri
sopperendo al mancato intervento dell’imprenditoria privata, quasi tutta nel Sud dedita all’edilizia e alla speculazione delle aree.

Ma una volta avviato il processo di privatizzazione dell’industria di Stato, al Nord vi erano
imprenditori privati che potevano assorbire ed acquisire tali aziende pubbliche,non così al Sud. Nel breve tempo di qualche anno ben 550.000 posti di lavoro nel Mezzogiorno si sono persi. Forse occorreva imprimere due velocità. Quando il Sud fu privato dell’ultimo centro direzionale delle Partecipazioni Statali, quello della Sme finanziaria, fu promessa una compensazione con la localizzazione dell’autorithy delle telecomunicazioni a Napoli.
Fu fittato parte di un grattacielo ma poi lentamente è stata trasferito il tutto a Roma
lasciando, forse, soltanto l’indirizzo legale e qualche impiegato.

E poi che dire? Dopo averci privato di una banca radicata nel Sud, il Banco di Napoli, e con la
istituzione delle fondazioni bancarie e i nostri risparmi vengono reinvestiti in Piemonte.
Si dice che oggi sia una realtà la “Banca del Mezzogiorno”, che disponga di 250 filiali dislocate
nel Sud (si tratta degli sportelli postali), che oltre alle Poste che ha comprato il Medio Credito
Centrale non ci sono altri parteners escludendo anche gli istituti di credito cooperativo.
La verità è che la Banca del Sud è una banca di secondo livello con modeste disponibilità di dotazioni (1,5 miliardi di euro) e che certo non potrà risolvere la questione meridionale.
Il ministro Barca ritiene che la responsabilità del mancato decollo al Sud sia da attribuire alla sola
classe dirigente merdionale. Noi riteniamo che esiste indubbiamente la responsabilità della classe dirigente meridionale ma anche quella del Governo e della burocrazia centrale. Un modello di sviluppo per il Sud, dove la disoccupazione è doppia rispetto al resto del Paese, non può esaurirsi sul turismo e sulla cultura. Ha bisogno di ben altro.

Fonte: Il Roma del 10 Aprile 2012 pag 1


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