Di Massimo Cacciari
Primavera italiana?L'espressione potrebbe davvero ricordare le drammatiche esperienze che si stanno vivendo in molti Paesi dell'altra sponda dell'antico mare nostrum? Le somiglianze non sono di ordine politico o istituzionale. Per quanto l'immagine della nostra politica sia giunta a livelli di indecenza impensabili fino a qualche anno fa, non siamo nelle mani né dei Mubarak né dei Ben Ali e ancor meno degli Assad. Alla peggio siamo stati fedeli alleati dei Gheddafi. Il parallelo può risultare istruttivo sotto altri profili. Occorre però partire da un'analisi non molto diffusa degli avvenimenti che stanno sconvolgendo gli equilibri sociali e politici dei Paesi islamici. Gli stereotipi della rivolta "islamica", così come quelli su occulti complotti ai vertici del potere, risultano del tutto inadeguati a giudicare la novità del fenomeno.
Sostanzialmente, la rivolta si diffonde del tutto al di fuori delle correnti religiose, ideologiche e politiche tradizionali. E con mezzi che non hanno più nulla a che vedere con quelli dell'appello carismatico e della direzione organizzativa "dall'alto". Chi sono i protagonisti? Giovani, operai e studenti, un ceto medio spesso anche altamente qualificato e comunque molto più qualificato della generazione precedente, con forti aspirazioni di mobilità sociale, colpiti da una crisi che si rovescia essenzialmente sulla loro condizione e sulle loro speranze.
Medici, ingegneri, architetti, giovani professionisti, generazione Erasmus bene o male anche questa, che si credevano fondatamente nuova classe dirigente nei loro Paesi e che si trovano sotto-occupati, peggio che precari quando va bene, disoccupati in massa, aspiranti solo a un posto sui barconi in fuga dall'assoluta miseria non solo economica ma umana. I regimi di quei Paesi hanno fallito per mille motivi ma il motivo scatenante della rivolta a me pare questo: nessuna classe dirigente può sopravvivere se non riesce a dare motivo di fiducia alle nuove generazioni. Anzi, direi paradossalmente, agli stessi non-nati, se non riesce a farle partecipare alla costruzione del loro destino.
Non c'entrano fondamentalismi, non c'entrano ideologie. La domanda di democrazia è concreta, materiale. Giustamente questi giovani concepiscono il valore della democrazia nella sua essenza, non per le chiacchiere che ne sommergono l'immagine. E questa è: garanzia di mobilità sociale, abbattimento delle barriere dei privilegi corporativi, intollerabilità di una fisiologica corruzione, partecipazione effettiva, e non "discutidora", alle decisioni che contano per la vita collettiva. Quando tutti questi meccanismi si inceppano, la pressione sale fino allo scoppio. E non se ne accorge soltanto chi vede la pignatta dall'esterno e non avverte il vulcano dentro.
Perché questa rivolta è risultata tanto imprevedibile ai potentati di Occidente? Come mai "esperti", quali il focoso Strauss-Kahn, allora direttore del Fondo monetario internazionale, potevano additare ad esempio di buona gestione dell'economia e delle politiche sociali il governo tunisino qualche giorno prima che lo stesso venisse cacciato? O il nostro povero Berlusconi poteva ritenere Gheddafi un invincibile alla vigilia della guerra civile? Semplicemente perché anche da noi, mutatis mutandis, la politica, nel senso più generale e proprio del termine, ha cessato di considerare ciò che si svolge e matura nel cuore di quelle energie che daranno vita comunque al Paese di domani. Ha cessato di guardare al non-ancora, a ciò che ancora non è organizzazione stabile, corporazione consolidata, lavoro garantito, e che comunque mai lo sarà nelle vecchie forme, come al problema decisivo dell'agenda politica.
Ricercatori, laureati, nuove professioni, free lance: milioni di giovani sono oggi da noi, e non solo in Italia, fuori da caste e palazzi. C'è da credere o temere che la loro pazienza sia ai limiti, come lo era quella dei loro colleghi maghrebini e egiziani. Non aspettiamoci che la "rivolta" avvenga, se avverrà, attraverso dichiarazioni di principio, pubblicazione di quei bei programmi in 5 mila pagine che elaborano i partiti prima delle elezioni. Come i loro colleghi d'oltre mare, si riconosceranno e si convocheranno attraverso le loro reti, le loro strade "immateriali". E quando finalmente si manifesterà la loro "potenza", oggi tutta ancora "potenziale", i vecchi, c'è da giurarlo, diranno: "Imprevedibile". Poiché "il vecchio" è caratterizzato appunto dall'ignorare il possibile.
Per l'organismo capace solo di sopravvivere o difendersi vale soltanto la forza delle corporazioni e degli ordini vigenti, i settori garantiti del lavoro, delle pensioni e magari della rendita. Esattamente come per quei regimi che la "primavera araba" promette di spazzare via. C'è ancora tempo da noi per una soluzione ragionata? Ogni intervento che si limiti a tamponare l'emergenza, senza prefigurare anche e soprattutto un nuovo patto tra generazioni (e generi e genti) non sarà che l'ennesima irresponsabile scelta di abbandonare agli eredi tutti i nostri misfatti.
Primavera italiana?L'espressione potrebbe davvero ricordare le drammatiche esperienze che si stanno vivendo in molti Paesi dell'altra sponda dell'antico mare nostrum? Le somiglianze non sono di ordine politico o istituzionale. Per quanto l'immagine della nostra politica sia giunta a livelli di indecenza impensabili fino a qualche anno fa, non siamo nelle mani né dei Mubarak né dei Ben Ali e ancor meno degli Assad. Alla peggio siamo stati fedeli alleati dei Gheddafi. Il parallelo può risultare istruttivo sotto altri profili. Occorre però partire da un'analisi non molto diffusa degli avvenimenti che stanno sconvolgendo gli equilibri sociali e politici dei Paesi islamici. Gli stereotipi della rivolta "islamica", così come quelli su occulti complotti ai vertici del potere, risultano del tutto inadeguati a giudicare la novità del fenomeno.
Sostanzialmente, la rivolta si diffonde del tutto al di fuori delle correnti religiose, ideologiche e politiche tradizionali. E con mezzi che non hanno più nulla a che vedere con quelli dell'appello carismatico e della direzione organizzativa "dall'alto". Chi sono i protagonisti? Giovani, operai e studenti, un ceto medio spesso anche altamente qualificato e comunque molto più qualificato della generazione precedente, con forti aspirazioni di mobilità sociale, colpiti da una crisi che si rovescia essenzialmente sulla loro condizione e sulle loro speranze.
Medici, ingegneri, architetti, giovani professionisti, generazione Erasmus bene o male anche questa, che si credevano fondatamente nuova classe dirigente nei loro Paesi e che si trovano sotto-occupati, peggio che precari quando va bene, disoccupati in massa, aspiranti solo a un posto sui barconi in fuga dall'assoluta miseria non solo economica ma umana. I regimi di quei Paesi hanno fallito per mille motivi ma il motivo scatenante della rivolta a me pare questo: nessuna classe dirigente può sopravvivere se non riesce a dare motivo di fiducia alle nuove generazioni. Anzi, direi paradossalmente, agli stessi non-nati, se non riesce a farle partecipare alla costruzione del loro destino.
Non c'entrano fondamentalismi, non c'entrano ideologie. La domanda di democrazia è concreta, materiale. Giustamente questi giovani concepiscono il valore della democrazia nella sua essenza, non per le chiacchiere che ne sommergono l'immagine. E questa è: garanzia di mobilità sociale, abbattimento delle barriere dei privilegi corporativi, intollerabilità di una fisiologica corruzione, partecipazione effettiva, e non "discutidora", alle decisioni che contano per la vita collettiva. Quando tutti questi meccanismi si inceppano, la pressione sale fino allo scoppio. E non se ne accorge soltanto chi vede la pignatta dall'esterno e non avverte il vulcano dentro.
Perché questa rivolta è risultata tanto imprevedibile ai potentati di Occidente? Come mai "esperti", quali il focoso Strauss-Kahn, allora direttore del Fondo monetario internazionale, potevano additare ad esempio di buona gestione dell'economia e delle politiche sociali il governo tunisino qualche giorno prima che lo stesso venisse cacciato? O il nostro povero Berlusconi poteva ritenere Gheddafi un invincibile alla vigilia della guerra civile? Semplicemente perché anche da noi, mutatis mutandis, la politica, nel senso più generale e proprio del termine, ha cessato di considerare ciò che si svolge e matura nel cuore di quelle energie che daranno vita comunque al Paese di domani. Ha cessato di guardare al non-ancora, a ciò che ancora non è organizzazione stabile, corporazione consolidata, lavoro garantito, e che comunque mai lo sarà nelle vecchie forme, come al problema decisivo dell'agenda politica.
Ricercatori, laureati, nuove professioni, free lance: milioni di giovani sono oggi da noi, e non solo in Italia, fuori da caste e palazzi. C'è da credere o temere che la loro pazienza sia ai limiti, come lo era quella dei loro colleghi maghrebini e egiziani. Non aspettiamoci che la "rivolta" avvenga, se avverrà, attraverso dichiarazioni di principio, pubblicazione di quei bei programmi in 5 mila pagine che elaborano i partiti prima delle elezioni. Come i loro colleghi d'oltre mare, si riconosceranno e si convocheranno attraverso le loro reti, le loro strade "immateriali". E quando finalmente si manifesterà la loro "potenza", oggi tutta ancora "potenziale", i vecchi, c'è da giurarlo, diranno: "Imprevedibile". Poiché "il vecchio" è caratterizzato appunto dall'ignorare il possibile.
Per l'organismo capace solo di sopravvivere o difendersi vale soltanto la forza delle corporazioni e degli ordini vigenti, i settori garantiti del lavoro, delle pensioni e magari della rendita. Esattamente come per quei regimi che la "primavera araba" promette di spazzare via. C'è ancora tempo da noi per una soluzione ragionata? Ogni intervento che si limiti a tamponare l'emergenza, senza prefigurare anche e soprattutto un nuovo patto tra generazioni (e generi e genti) non sarà che l'ennesima irresponsabile scelta di abbandonare agli eredi tutti i nostri misfatti.
Fonte: L'Espresso
.
Nessun commento:
Posta un commento