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Le pallottole sovrastano le parole. Ma non tacitano le coscienze
di don Aldo Antonelli*, da Adista 26/2011
Nella società della “comunicazione imbonitiva” si alternano in maniera sempre più repentina, e senza lasciare spazio a parentesi di intesa, parole gridate come armi e armi usate come “ultima Parola”.
La politica impotente, abdicando al suo compito di mediazione, affida, alternativamente e senza limiti di sorta, la società civile non più governata alla violenza di una economia sempre più vorace e distruttiva e ad un esercito sempre più professionale e allertato.
Già nel lontano 1940 Bertold Brecht denunciava questo intrigo ormai inscindibile tra violenza ed economia: «Nei Paesi democratici non si rivela il carattere violento dell'economia, così come nei Paesi autoritari non si rivela il carattere economico della violenza»; rilevando che ad oggi molte democrazie hanno da tempo smesso di essere democratiche, avendo assunto tutti i connotati dell’autoritarietà.
Come cittadini dobbiamo rifuggire dall’ammutinarci nelle gabbie fanatiche delle tifoserie di parte in cui certa stampa vuole stupidamente imprigionarci. Se siamo contro l’uso delle armi è perché avvertiamo sempre più la stretta del nodo scorsoio di questo connubio osceno tra economia e violenza che strangola le nostre democrazie. Se siamo contro l’uso delle armi è perché siamo coscienti che non è possibile chiedere ad esse ciò che esse non possono dare; perché le armi massacrano i valori che pretendono di difendere! Siamo e saremo sempre contro questa folle corsa agli armamenti che taglia le risorse allo Stato sociale e ingrassa i buoi nelle stalle di affaristi senza scrupoli.
Nel caso specifico della Libia «abbiamo riempito di armi Gheddafi, come forse nessun altro al mondo, poi gli spariamo addosso con altre armi», è la denuncia di padre Zanotelli sull’Unità del 24 Marzo. «Questa contraddizione merita anch'essa una questione morale oppure no? Lo abbiamo armato fino ai denti per poi scoprire che andava abbattuto. Nel nostro dialogo con la Libia l'unico vocabolario è quello delle armi!».
Non mi risulta che ci siano stati tentativi di dialogo, incontri di chiarimento, pressioni diplomatiche ai fini di una risoluzione graduale e pacifica del conflitto civile, né prima né dopo l’intervento armato. Si è passati, impudentemente, dalla cortigianeria affaristica all’ostracismo puritano. In tal senso non ha tutti i torti il raìs a tacciare di tradimento i governi occidentali e in particolare l’Italia.
Come cristiani siamo coscienti che cambiando il nostro punto di vista a partire dalla legge morale del non uccidere demoliremo anche le ragioni della guerra e della violenza. Il paradigma della nonviolenza che a partire dal Gesù di Nazareth, passando per Francesco di Assisi, giunge a noi anche attraverso Gandhi e Danilo Dolci e il teologo Raymond Panikkar, è esigente. Esso «implica un impegno soggettivo, un lavoro su se stessi, una pedagogia del rispetto che esclude i rapporti muscolari, le tecniche di azzeramento delle ragioni dell'altro, le scomuniche e le chiusure» (Marco Revelli). Se è vero che in tempo di guerra i proiettili sono più veloci delle parole, è pur vero che quelli sono del tutto impotenti a distruggere le coscienze allertate dalle quali, solo, può nascere una democrazia di pace.
* Parroco ad Antrosano (Aq)
Fonte: MicroMega (28 marzo 2011)
.
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di don Aldo Antonelli*, da Adista 26/2011
Nella società della “comunicazione imbonitiva” si alternano in maniera sempre più repentina, e senza lasciare spazio a parentesi di intesa, parole gridate come armi e armi usate come “ultima Parola”.
La politica impotente, abdicando al suo compito di mediazione, affida, alternativamente e senza limiti di sorta, la società civile non più governata alla violenza di una economia sempre più vorace e distruttiva e ad un esercito sempre più professionale e allertato.
Già nel lontano 1940 Bertold Brecht denunciava questo intrigo ormai inscindibile tra violenza ed economia: «Nei Paesi democratici non si rivela il carattere violento dell'economia, così come nei Paesi autoritari non si rivela il carattere economico della violenza»; rilevando che ad oggi molte democrazie hanno da tempo smesso di essere democratiche, avendo assunto tutti i connotati dell’autoritarietà.
Come cittadini dobbiamo rifuggire dall’ammutinarci nelle gabbie fanatiche delle tifoserie di parte in cui certa stampa vuole stupidamente imprigionarci. Se siamo contro l’uso delle armi è perché avvertiamo sempre più la stretta del nodo scorsoio di questo connubio osceno tra economia e violenza che strangola le nostre democrazie. Se siamo contro l’uso delle armi è perché siamo coscienti che non è possibile chiedere ad esse ciò che esse non possono dare; perché le armi massacrano i valori che pretendono di difendere! Siamo e saremo sempre contro questa folle corsa agli armamenti che taglia le risorse allo Stato sociale e ingrassa i buoi nelle stalle di affaristi senza scrupoli.
Nel caso specifico della Libia «abbiamo riempito di armi Gheddafi, come forse nessun altro al mondo, poi gli spariamo addosso con altre armi», è la denuncia di padre Zanotelli sull’Unità del 24 Marzo. «Questa contraddizione merita anch'essa una questione morale oppure no? Lo abbiamo armato fino ai denti per poi scoprire che andava abbattuto. Nel nostro dialogo con la Libia l'unico vocabolario è quello delle armi!».
Non mi risulta che ci siano stati tentativi di dialogo, incontri di chiarimento, pressioni diplomatiche ai fini di una risoluzione graduale e pacifica del conflitto civile, né prima né dopo l’intervento armato. Si è passati, impudentemente, dalla cortigianeria affaristica all’ostracismo puritano. In tal senso non ha tutti i torti il raìs a tacciare di tradimento i governi occidentali e in particolare l’Italia.
Come cristiani siamo coscienti che cambiando il nostro punto di vista a partire dalla legge morale del non uccidere demoliremo anche le ragioni della guerra e della violenza. Il paradigma della nonviolenza che a partire dal Gesù di Nazareth, passando per Francesco di Assisi, giunge a noi anche attraverso Gandhi e Danilo Dolci e il teologo Raymond Panikkar, è esigente. Esso «implica un impegno soggettivo, un lavoro su se stessi, una pedagogia del rispetto che esclude i rapporti muscolari, le tecniche di azzeramento delle ragioni dell'altro, le scomuniche e le chiusure» (Marco Revelli). Se è vero che in tempo di guerra i proiettili sono più veloci delle parole, è pur vero che quelli sono del tutto impotenti a distruggere le coscienze allertate dalle quali, solo, può nascere una democrazia di pace.
* Parroco ad Antrosano (Aq)
Fonte: MicroMega (28 marzo 2011)
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