venerdì 2 luglio 2010

Quando il Meridione era più florido



Di Angelo Picariello

Oggi l’Alfa Romeo compie cento anni. «Ma l’Alfa avrebbe chiuso per fallimento dopo pochi anni, se non fosse intervenuto il napoletano Nicola Romeo a salvarla. Altrimenti, altro che centenario…». Carmine De Marco è un imprenditore informatico che si diverte (ma neanche tanto) a riscrivere la storia d’Italia. Ovvero, l’unità d’Italia vista dall’ex Capitale del Regno delle Due Sicilie. Un must, per gli appassionati del genere sul Web, è il suo libro Revisione critica della storia dell’unità d’Italia. Un libro pubblicato in proprio, quasi da editoria clandestina, ma che continua a circolare grazie al passaparola dei convegni storici, della Rete e dei social network. Ed è pronta già l’edizione riveduta e corretta: «La conquista e la colonizzazione del Meridione d’Italia», ovvero «Federalismo fiscale? Sì, ma prima facciamo i conti»: «E oggi – dice De Marco – chi vuole chiudere Pomigliano non conosce la storia, o fa finta di dimenticarla».

Ma che c’entra l’unità d’Italia con i cento anni dell’Alfa?
«C’entra eccome. Perché quella vicenda è emblematica di come l’industria meridionale, fiorente fino a 150 anni fa, in special modo quella metalmeccanica, già da mezzo secolo fosse stata abbandonata a sé stessa per privilegiare quella del Nord. L’ingegner Nicola Romeo, ricordiamolo, era un geniale imprenditore metalmeccanico che aveva diversi, importanti stabilimenti nella zona Napoli. Licenziatario per la costruzione di camioncini di trasporto truppe della francese Darracq, allo scoppio della Prima guerra offrì allo Stato italiano il suo prodotto a prezzo vantaggioso, ma si sentì rispondere che esso acquistava solo prodotto nazionale. Cioè del Nord. Così accettò di rilevare l’A.L.F.A (Anonima Lombarda Fabbrica Automobili), che aveva i suoi stabilimenti a Portello, presso Milano, ed era in liquidazione. Finita la guerra, nel 1918, fu inizialmente cambiato il nome della società in "Società Anonima Ing. Nicola Romeo e Co.". Ma si sa che i napoletani sono buoni di cuore: infatti Romeo non infierì, e al termine di una lunga vertenza con i vecchi proprietari dell’Alfa, non mise sullo scudetto il Vesuvio, ma lasciò il biscione milanese. E tutti oggi si lamentano per l’Alfa-Sud di Pomigliano, poi passata alla Fiat, "regalata" ai meridionali "sfaticati" dai generosi industriali settentrionali».

Qual è invece, a suo avviso, la storia vera dell’industria del Sud?
«La verità è che il sistema bancario unitario ha aiutato solo il Nord (vedi la crisi Fiat del 1907) mentre la fiorente industria del Sud fu abbandonata al suo destino: stabilimenti tessili come le Reali fabbriche di San Leucio o la grande cartiera di Fibreno, per citare solo due casi, non ebbero analogo aiuto e chiusero. Al Nord Fiat, Ansaldo, Pirelli (l’elenco sarebbe lungo) prosperarono con commesse e aiuti pubblici mentre il Reale Opificio di Pietrarsa, che in epoca borbonica era il più grande stabilimento meccanico, fu lasciato morire. Oggi si vuol fare fare il federalismo? Bene, ma prima si saldino un po’ di conti».

Facciamoli, allora, i conti. Purché non si arrivi alle nostalgie borboniche...
«Non sono nostalgico dei Borbone. E non metto in discussione l’Unità d’Italia. Ma purtroppo, si sa, la storia la scrivono i vincitori. Guardiamo invece ai fatti, ai dati. Il primo, cui tengo molto, è la mortalità infantile, fra i più indicativi della situazione sociale e della profilassi. Ebbene, nel 1861, nel primo anno di vita, su 100 bambini nati vivi in Italia, ne morivano al Nord 54 e al Sud 46. Invece, dopo pochi anni la situazione si invertì. Da quel momento la mortalità infantile del Nord diminuì costantemente e quella del Sud salì. E saltando al 2008, su 100 bambini nati vivi ne muoiono, durante il primo anno di vita, 40 al Nord e 60 al Sud. Ma torniamo all’industria: al Nord gli addetti del settore, 150 anni fa, erano solo l’11,8 per cento, mentre al Sud il 16,3. Il solo cantiere navale di Castellammare di Stabia impiegava 1.800 persone. La filatura della seta, al Sud, impiegava 20 mila operai in circa 600 opifici; 10mila erano addetti ai tabacchi. La cartiera del Fibreno in Terra di Lavoro, oggi tristemente nota come terra dei Casalesi, produceva 1.130 chilometri di carta, e dava lavoro a 500 persone. Invece, a inizi ’900, nel Nord gli addetti all’industria aumentarono al 14,7 per cento e nel Sud scesero al 9,8. E, appunto, il caso Alfa è emblematico».

E lei come spiega tutto questo?
«Il sistema bancario unitario sostenne solo il Nord, attuando di fatto il saccheggio delle finanze del Regno delle due Sicilie. Basti ricordare che le riserve auree del Banco di Napoli ammontavano a 48 milioni, quasi il doppio (26 milioni) della Banca nazionale, nata dalla fusione della Banca Nazionale Sarda, della Banca Nazionale Toscana e della Banca Toscana di Credito. Furono anche istituite 24 nuove tasse per risanare il debito del Piemonte, quattro volte maggiore di quello del Sud. E dalla sola vendita dei beni ecclesiastici e demaniali del Sud lo Stato ricavò 500 milioni».

Oggi però ricordare tutto questo può costituire un formidabile alibi per il Sud che non si rimbocca le maniche. Non trova?
«Ma non raccontare questo processo storico significa marchiare l’arretratezza del Sud quasi come fattore cromosomico, come malattia inguaribile che porta emigrazione e criminalità. Invece io dico sempre che questi fatti hanno trasformato i cittadini meridionali da lupi in cani, che cioè non sanno più procurarsi il cibo da soli, ma lo attendono dal padrone al quale devono scodinzolare. Solo capendo questo si potrà invertire la rotta, garantendo un’unità del Paese che sia rispettosa della verità storica».

Fonte:Avvenire.it del 26/06/2010
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Di Angelo Picariello

Oggi l’Alfa Romeo compie cento anni. «Ma l’Alfa avrebbe chiuso per fallimento dopo pochi anni, se non fosse intervenuto il napoletano Nicola Romeo a salvarla. Altrimenti, altro che centenario…». Carmine De Marco è un imprenditore informatico che si diverte (ma neanche tanto) a riscrivere la storia d’Italia. Ovvero, l’unità d’Italia vista dall’ex Capitale del Regno delle Due Sicilie. Un must, per gli appassionati del genere sul Web, è il suo libro Revisione critica della storia dell’unità d’Italia. Un libro pubblicato in proprio, quasi da editoria clandestina, ma che continua a circolare grazie al passaparola dei convegni storici, della Rete e dei social network. Ed è pronta già l’edizione riveduta e corretta: «La conquista e la colonizzazione del Meridione d’Italia», ovvero «Federalismo fiscale? Sì, ma prima facciamo i conti»: «E oggi – dice De Marco – chi vuole chiudere Pomigliano non conosce la storia, o fa finta di dimenticarla».

Ma che c’entra l’unità d’Italia con i cento anni dell’Alfa?
«C’entra eccome. Perché quella vicenda è emblematica di come l’industria meridionale, fiorente fino a 150 anni fa, in special modo quella metalmeccanica, già da mezzo secolo fosse stata abbandonata a sé stessa per privilegiare quella del Nord. L’ingegner Nicola Romeo, ricordiamolo, era un geniale imprenditore metalmeccanico che aveva diversi, importanti stabilimenti nella zona Napoli. Licenziatario per la costruzione di camioncini di trasporto truppe della francese Darracq, allo scoppio della Prima guerra offrì allo Stato italiano il suo prodotto a prezzo vantaggioso, ma si sentì rispondere che esso acquistava solo prodotto nazionale. Cioè del Nord. Così accettò di rilevare l’A.L.F.A (Anonima Lombarda Fabbrica Automobili), che aveva i suoi stabilimenti a Portello, presso Milano, ed era in liquidazione. Finita la guerra, nel 1918, fu inizialmente cambiato il nome della società in "Società Anonima Ing. Nicola Romeo e Co.". Ma si sa che i napoletani sono buoni di cuore: infatti Romeo non infierì, e al termine di una lunga vertenza con i vecchi proprietari dell’Alfa, non mise sullo scudetto il Vesuvio, ma lasciò il biscione milanese. E tutti oggi si lamentano per l’Alfa-Sud di Pomigliano, poi passata alla Fiat, "regalata" ai meridionali "sfaticati" dai generosi industriali settentrionali».

Qual è invece, a suo avviso, la storia vera dell’industria del Sud?
«La verità è che il sistema bancario unitario ha aiutato solo il Nord (vedi la crisi Fiat del 1907) mentre la fiorente industria del Sud fu abbandonata al suo destino: stabilimenti tessili come le Reali fabbriche di San Leucio o la grande cartiera di Fibreno, per citare solo due casi, non ebbero analogo aiuto e chiusero. Al Nord Fiat, Ansaldo, Pirelli (l’elenco sarebbe lungo) prosperarono con commesse e aiuti pubblici mentre il Reale Opificio di Pietrarsa, che in epoca borbonica era il più grande stabilimento meccanico, fu lasciato morire. Oggi si vuol fare fare il federalismo? Bene, ma prima si saldino un po’ di conti».

Facciamoli, allora, i conti. Purché non si arrivi alle nostalgie borboniche...
«Non sono nostalgico dei Borbone. E non metto in discussione l’Unità d’Italia. Ma purtroppo, si sa, la storia la scrivono i vincitori. Guardiamo invece ai fatti, ai dati. Il primo, cui tengo molto, è la mortalità infantile, fra i più indicativi della situazione sociale e della profilassi. Ebbene, nel 1861, nel primo anno di vita, su 100 bambini nati vivi in Italia, ne morivano al Nord 54 e al Sud 46. Invece, dopo pochi anni la situazione si invertì. Da quel momento la mortalità infantile del Nord diminuì costantemente e quella del Sud salì. E saltando al 2008, su 100 bambini nati vivi ne muoiono, durante il primo anno di vita, 40 al Nord e 60 al Sud. Ma torniamo all’industria: al Nord gli addetti del settore, 150 anni fa, erano solo l’11,8 per cento, mentre al Sud il 16,3. Il solo cantiere navale di Castellammare di Stabia impiegava 1.800 persone. La filatura della seta, al Sud, impiegava 20 mila operai in circa 600 opifici; 10mila erano addetti ai tabacchi. La cartiera del Fibreno in Terra di Lavoro, oggi tristemente nota come terra dei Casalesi, produceva 1.130 chilometri di carta, e dava lavoro a 500 persone. Invece, a inizi ’900, nel Nord gli addetti all’industria aumentarono al 14,7 per cento e nel Sud scesero al 9,8. E, appunto, il caso Alfa è emblematico».

E lei come spiega tutto questo?
«Il sistema bancario unitario sostenne solo il Nord, attuando di fatto il saccheggio delle finanze del Regno delle due Sicilie. Basti ricordare che le riserve auree del Banco di Napoli ammontavano a 48 milioni, quasi il doppio (26 milioni) della Banca nazionale, nata dalla fusione della Banca Nazionale Sarda, della Banca Nazionale Toscana e della Banca Toscana di Credito. Furono anche istituite 24 nuove tasse per risanare il debito del Piemonte, quattro volte maggiore di quello del Sud. E dalla sola vendita dei beni ecclesiastici e demaniali del Sud lo Stato ricavò 500 milioni».

Oggi però ricordare tutto questo può costituire un formidabile alibi per il Sud che non si rimbocca le maniche. Non trova?
«Ma non raccontare questo processo storico significa marchiare l’arretratezza del Sud quasi come fattore cromosomico, come malattia inguaribile che porta emigrazione e criminalità. Invece io dico sempre che questi fatti hanno trasformato i cittadini meridionali da lupi in cani, che cioè non sanno più procurarsi il cibo da soli, ma lo attendono dal padrone al quale devono scodinzolare. Solo capendo questo si potrà invertire la rotta, garantendo un’unità del Paese che sia rispettosa della verità storica».

Fonte:Avvenire.it del 26/06/2010
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