venerdì 5 settembre 2008

Federalisti a mezzogiorno


La storica Claudia Petraccone analizza l'origine della scissione tra il Nord e il Sud del Paese. "Lo scontro iniziò già al momento dell'Unità, che non rispettava abbastanza le particolarità locali"

Intervista di Antonio Airò

"Lo «Stato di Milano» vuol dire la Lombardia governata dai lombardi, senza che nelle cose loro, non aventi relazione con ciò che concerne l'amministrazione generale dello Stato (armi, poste, dogane, ecc.) altri abbia diritto di mettere il naso ... vuol dire amministrazione e finanza casalinga, fatta da gente che conosce il Paese, che non è da un momento all'altro trabalzata - per capriccio di un ministro - a mille miglia di distanza...". Non è una delle tante dichiarazioni con le quali oggi si rivendica la forma federale per il nostro Paese. Il giudizio appare in un giornale milanese «L'Italia del popolo», diretto dal repubblicano Dario Papa, alla vigilia delle politiche del 1895 che videro, sul piano elettorale, un'Italia spaccata in due, con la netta affermazione di Crispi nel Mezzogiorno (mentre il successo fu più stentato al Nord) tanto da indurre il socialista Filippo Turati a scrivere di "un antagonismo geografico che non fu mai così apparente e pericoloso come ora".
Altre affermazioni, attualissime, con l'aggiunta anche di pregiudizi del Nord verso il Sud e del Sud verso il Nord, si ritrovano ampiamente nel volume di Claudia Petraccone, docente all'università di Napoli, «Le due civiltà. Settentrionali e meridionali nella storia d'Italia», (Laterza, pagine 312, lire 35.000) che percorre, con ampi richiami agli epistolari, ai dibattiti parlamentari, alle relazioni delle varie commissioni d'inchiesta, alla stampa del tempo, l'incontro e lo scontro (con ipotesi anche di "scissura" dell'unità italiana) tra gli abitanti dei due territori, gli uni e gli altri decisi a sottolineare la specificità della propria cultura, della propria indole.
"Incontro e scontro che inizia già con la proclamazione dell'unità italiana - ci dice la professoressa Petraccone -. Questa, come ormai è noto, non nasce nel rispetto delle particolarità dei diversi Stati italiani. Lo stesso Cavour era stato un rigido sostenitore del decentramento. Ma, con l'impresa garibaldina, la situazione cambia. Cavour diventa centralista per evitare che nel Mezzogiorno si affermi un movimento «rivoluzionario» che avrebbe messo in discussione il processo unitario. Non si dimentichi inoltre che per molti esponenti politici piemontesi (e anche da non pochi esuli fuggiti dal Mezzogiorno), il Sud era visto come l'Africa, come una terra di «barbari» irrecuperabile alla modernità, come un'«ulcera» per usare un'espressione di Massimo D'Azeglio".
D. Non mancarono però voci critiche sull'uniformità legislativa e amministrativa imposta dai piemontesi e che chiedevano quanto meno che fosse considerato "come una provincia italiana e non come un paese conquistato".
"A prevalere allora fu la «piemontesizzazione» del Mezzogiorno con l'invio di militari, di funzionari che trattarono perlopiù il Sud come terra di conquista. Uno scontro di «civiltà», aggravato dal fenomeno del brigantaggio contro il quale si doveva ricorrere quasi esclusivamente alla forza".
D. C'era un'altra soluzione?
"Bisognava superare l'uniformità amministrativa ad ogni costo, evitando di cancellare tutto ciò che era meridionale. E questo non fu fatto anche perché c'era il brigantaggio. Furono i Borboni ad alimentare questa violenta protesta. Ma dietro il brigantaggio c'era la reazione di gran parte del mondo contadino contro un'unificazione che non capiva assolutamente. Le popolazioni meridionali, in un Sud che aveva perso anche la sua autonomia, si sono ritenute lese ed umiliate. La questione meridionale diventa così questione sociale perché si teme che i contadini insorgano".
D. Con la sconfitta della destra moderata e il governo della sinistra, dal 1876 in poi, certe esigenze di autonomia o di federalismo avrebbero dovuto affermarsi. Invece questo non avviene. Perché?
"Il maggior peso dei deputati meridionali non porta al superamento delle due realtà. Il Nord avverte il Sud come un peso, come «perso» per una politica di modernizzazione. Dal canto loro i parlamentari del Sud si fanno portavoce del malcontento attraverso una serie di richieste municipalistiche, assistenzialistiche. Ciò si traduce in un sostegno al governo, quale esso sia, nel prevalere del voto di scambio, nella meridionalizzazione della pubblica amministrazione e della politica italiana. In questa situazione la questione meridionale diventa questione istituzionale".
D. In che senso?
"Cresce la consapevolezza che il centralismo è una camicia di forza che rischiava di mettere in discussione la stessa unità del paese. Fermenti autonomistici si avvertono non solo nel Nord ma anche in aree del Sud, a cominciare dalla Sicilia. In Lombardia, e non solo, nascono dei comitati di studio per una forte autonomia. Allo Stato accentratore di Crispi si contrappone lo Stato aperto all'autogoverno".
D. Ma proprio in questi anni non mancano voci che auspicano, sia al Nord, sia al Sud, la scissione del Paese. Cosa può dire?
"Si tratta di posizioni minoritarie, di cui si fà portavoce «La Gazzetta» di Venezia che si pronuncia contro il centralismo di Roma e soprattutto contro il Sud con toni apertamente razzisti, cui si contrappone a Napoli «Il Mattino» di Scarfoglio che porta all'estremo il «sudismo» in nome del primato culturale del Mezzogiorno. Ma gli stessi imprenditori del Nord avvertono sempre più la «scissura» come jattura anche per loro, schierandosi invece per un forte e deciso Stato autonomista".
D. La questione meridionale è vista anche come una questione antropologica, con Lombroso molto critico verso il Sud.
"È vero, Lombroso si schiera per il decentramento. Ma anche lui teorizza l'esistenza di una razza «poltrona» al Sud e quindi inferiore a quella del Nord. E per un altro antropologo, come Niceforo che pure si dichiara socialista, la barbarie è propria del Mezzogiorno. Una posizione che condurrà Gramsci ad accusarli di essere stati veicoli di una diffusa mentalità antimeridionalista".
D. Anche Turati non è certo tenero verso il Mezzogiorno. Quale è stata la posizione dei socialisti?
"La forte polemica con Crispi porta il leader socialista a parlare di un «unitarismo forzato» e a vedere il Sud come un blocco compatto di inciviltà e di reazione al quale si contrappone la borghesia moderna del Nord, la cui presenza avrebbe fatto crescere i socialisti. Una posizione antimeridionalista, quella di Turati, che non mancò di essere contraddetta nel suo stesso partito. C'è da dire però che, con l'affermarsi del Psi anche nel Mezzogiorno, nel primo decennio del secolo Turati assume una posizione molto progressista, proponendo una trasformazione di tutta l'economia italiana inserendo in questo processo anche il Mezzogiorno. La questione meridionale diventa grande questione nazionale, nella quale anche la questione «settentrionale» può trovare soluzione".
D. Nel suo libro non c'è alcun accenno a Sturzo, fortemente autonomista, e al ruolo dei cattolici. Perché?
"Nel periodo da me analizzato, don Sturzo si occupa dei problemi della sua Sicilia oltre che degli enti locali. Solo per un motivo cronologico non è stato considerato".
D. Nel decennio giolittiano c'è una enorme crescita economica e sociale del Paese, ma il tema del federalismo è praticamente assente?
"Il forte antimeridionalismo della fine del secolo lascia il posto a più pacate riflessioni. Anche perché l'Italia vive un momento di forte espansione economica. Il Nord avverte i meriti del Sud e riconosce i sacrifici sopportati nel processo di unificazione. Non passa più l'idea di un Mezzogiorno come un corpo sempre malato. E questo può spiegare l'accantonamento del federalismo. Con la guerra di Libia e poi il conflitto mondiale prevale la retorica del patriottismo e durante il fascismo non si parlò più di decentramento. La questione meridionale era risolta, si diceva. Ma già nel 1944 essa si ripropone. E non a caso in questi ultimi anni, anni di transizione e di crisi ritorna il tema del federalismo. Come alla fine del secolo scorso".

tratto da: Avvenire, 8.8.2000
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La storica Claudia Petraccone analizza l'origine della scissione tra il Nord e il Sud del Paese. "Lo scontro iniziò già al momento dell'Unità, che non rispettava abbastanza le particolarità locali"

Intervista di Antonio Airò

"Lo «Stato di Milano» vuol dire la Lombardia governata dai lombardi, senza che nelle cose loro, non aventi relazione con ciò che concerne l'amministrazione generale dello Stato (armi, poste, dogane, ecc.) altri abbia diritto di mettere il naso ... vuol dire amministrazione e finanza casalinga, fatta da gente che conosce il Paese, che non è da un momento all'altro trabalzata - per capriccio di un ministro - a mille miglia di distanza...". Non è una delle tante dichiarazioni con le quali oggi si rivendica la forma federale per il nostro Paese. Il giudizio appare in un giornale milanese «L'Italia del popolo», diretto dal repubblicano Dario Papa, alla vigilia delle politiche del 1895 che videro, sul piano elettorale, un'Italia spaccata in due, con la netta affermazione di Crispi nel Mezzogiorno (mentre il successo fu più stentato al Nord) tanto da indurre il socialista Filippo Turati a scrivere di "un antagonismo geografico che non fu mai così apparente e pericoloso come ora".
Altre affermazioni, attualissime, con l'aggiunta anche di pregiudizi del Nord verso il Sud e del Sud verso il Nord, si ritrovano ampiamente nel volume di Claudia Petraccone, docente all'università di Napoli, «Le due civiltà. Settentrionali e meridionali nella storia d'Italia», (Laterza, pagine 312, lire 35.000) che percorre, con ampi richiami agli epistolari, ai dibattiti parlamentari, alle relazioni delle varie commissioni d'inchiesta, alla stampa del tempo, l'incontro e lo scontro (con ipotesi anche di "scissura" dell'unità italiana) tra gli abitanti dei due territori, gli uni e gli altri decisi a sottolineare la specificità della propria cultura, della propria indole.
"Incontro e scontro che inizia già con la proclamazione dell'unità italiana - ci dice la professoressa Petraccone -. Questa, come ormai è noto, non nasce nel rispetto delle particolarità dei diversi Stati italiani. Lo stesso Cavour era stato un rigido sostenitore del decentramento. Ma, con l'impresa garibaldina, la situazione cambia. Cavour diventa centralista per evitare che nel Mezzogiorno si affermi un movimento «rivoluzionario» che avrebbe messo in discussione il processo unitario. Non si dimentichi inoltre che per molti esponenti politici piemontesi (e anche da non pochi esuli fuggiti dal Mezzogiorno), il Sud era visto come l'Africa, come una terra di «barbari» irrecuperabile alla modernità, come un'«ulcera» per usare un'espressione di Massimo D'Azeglio".
D. Non mancarono però voci critiche sull'uniformità legislativa e amministrativa imposta dai piemontesi e che chiedevano quanto meno che fosse considerato "come una provincia italiana e non come un paese conquistato".
"A prevalere allora fu la «piemontesizzazione» del Mezzogiorno con l'invio di militari, di funzionari che trattarono perlopiù il Sud come terra di conquista. Uno scontro di «civiltà», aggravato dal fenomeno del brigantaggio contro il quale si doveva ricorrere quasi esclusivamente alla forza".
D. C'era un'altra soluzione?
"Bisognava superare l'uniformità amministrativa ad ogni costo, evitando di cancellare tutto ciò che era meridionale. E questo non fu fatto anche perché c'era il brigantaggio. Furono i Borboni ad alimentare questa violenta protesta. Ma dietro il brigantaggio c'era la reazione di gran parte del mondo contadino contro un'unificazione che non capiva assolutamente. Le popolazioni meridionali, in un Sud che aveva perso anche la sua autonomia, si sono ritenute lese ed umiliate. La questione meridionale diventa così questione sociale perché si teme che i contadini insorgano".
D. Con la sconfitta della destra moderata e il governo della sinistra, dal 1876 in poi, certe esigenze di autonomia o di federalismo avrebbero dovuto affermarsi. Invece questo non avviene. Perché?
"Il maggior peso dei deputati meridionali non porta al superamento delle due realtà. Il Nord avverte il Sud come un peso, come «perso» per una politica di modernizzazione. Dal canto loro i parlamentari del Sud si fanno portavoce del malcontento attraverso una serie di richieste municipalistiche, assistenzialistiche. Ciò si traduce in un sostegno al governo, quale esso sia, nel prevalere del voto di scambio, nella meridionalizzazione della pubblica amministrazione e della politica italiana. In questa situazione la questione meridionale diventa questione istituzionale".
D. In che senso?
"Cresce la consapevolezza che il centralismo è una camicia di forza che rischiava di mettere in discussione la stessa unità del paese. Fermenti autonomistici si avvertono non solo nel Nord ma anche in aree del Sud, a cominciare dalla Sicilia. In Lombardia, e non solo, nascono dei comitati di studio per una forte autonomia. Allo Stato accentratore di Crispi si contrappone lo Stato aperto all'autogoverno".
D. Ma proprio in questi anni non mancano voci che auspicano, sia al Nord, sia al Sud, la scissione del Paese. Cosa può dire?
"Si tratta di posizioni minoritarie, di cui si fà portavoce «La Gazzetta» di Venezia che si pronuncia contro il centralismo di Roma e soprattutto contro il Sud con toni apertamente razzisti, cui si contrappone a Napoli «Il Mattino» di Scarfoglio che porta all'estremo il «sudismo» in nome del primato culturale del Mezzogiorno. Ma gli stessi imprenditori del Nord avvertono sempre più la «scissura» come jattura anche per loro, schierandosi invece per un forte e deciso Stato autonomista".
D. La questione meridionale è vista anche come una questione antropologica, con Lombroso molto critico verso il Sud.
"È vero, Lombroso si schiera per il decentramento. Ma anche lui teorizza l'esistenza di una razza «poltrona» al Sud e quindi inferiore a quella del Nord. E per un altro antropologo, come Niceforo che pure si dichiara socialista, la barbarie è propria del Mezzogiorno. Una posizione che condurrà Gramsci ad accusarli di essere stati veicoli di una diffusa mentalità antimeridionalista".
D. Anche Turati non è certo tenero verso il Mezzogiorno. Quale è stata la posizione dei socialisti?
"La forte polemica con Crispi porta il leader socialista a parlare di un «unitarismo forzato» e a vedere il Sud come un blocco compatto di inciviltà e di reazione al quale si contrappone la borghesia moderna del Nord, la cui presenza avrebbe fatto crescere i socialisti. Una posizione antimeridionalista, quella di Turati, che non mancò di essere contraddetta nel suo stesso partito. C'è da dire però che, con l'affermarsi del Psi anche nel Mezzogiorno, nel primo decennio del secolo Turati assume una posizione molto progressista, proponendo una trasformazione di tutta l'economia italiana inserendo in questo processo anche il Mezzogiorno. La questione meridionale diventa grande questione nazionale, nella quale anche la questione «settentrionale» può trovare soluzione".
D. Nel suo libro non c'è alcun accenno a Sturzo, fortemente autonomista, e al ruolo dei cattolici. Perché?
"Nel periodo da me analizzato, don Sturzo si occupa dei problemi della sua Sicilia oltre che degli enti locali. Solo per un motivo cronologico non è stato considerato".
D. Nel decennio giolittiano c'è una enorme crescita economica e sociale del Paese, ma il tema del federalismo è praticamente assente?
"Il forte antimeridionalismo della fine del secolo lascia il posto a più pacate riflessioni. Anche perché l'Italia vive un momento di forte espansione economica. Il Nord avverte i meriti del Sud e riconosce i sacrifici sopportati nel processo di unificazione. Non passa più l'idea di un Mezzogiorno come un corpo sempre malato. E questo può spiegare l'accantonamento del federalismo. Con la guerra di Libia e poi il conflitto mondiale prevale la retorica del patriottismo e durante il fascismo non si parlò più di decentramento. La questione meridionale era risolta, si diceva. Ma già nel 1944 essa si ripropone. E non a caso in questi ultimi anni, anni di transizione e di crisi ritorna il tema del federalismo. Come alla fine del secolo scorso".

tratto da: Avvenire, 8.8.2000

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