lunedì 12 novembre 2012

“I meridionali? Sono biologicamente inferiori”, i danni di Lombroso


Francesca Chirico
Altro che ragioni storiche, economiche e sociali, altro che terre da distribuire ai contadini. Lombroso e i suoi cercarono di dimostrare che i meridionali sono “biologicamente inferiori” come scrisse Gramsci. Ora un comune calabrese rivuole indietro il teschio del “brigante” su cui studiava Lombroso.


Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/Giuseppe-Villella#ixzz2BzsnJ6gS

Il "tipo-delinquente" secondo Cesare Lombrosio


Corpi di reato e disegni di “mattoidi”. Pipe e tabacchiere costruite da detenuti. Il pezzo più pregiato della sua collezione privata, raccolta tra campagne nel meridione, carceri e manicomi, Cesare Lombroso però lo teneva in bella vista sulla scrivania, come fermacarte. E poco importa che qualcuno la ritenesse un’abitudine un po’ macabra.
Al teschio del detenuto Giuseppe Villella da Motta Santa Lucia, in Calabria, il medico veronese doveva la scintilla della sua principale scoperta; tra esami e misurazioni, era stata proprio l’autopsia su quel cranio, e su nessun altro, a indurlo a concludere che delinquenti si nasce, e c’è poco da fare.
Tutta colpa di uno scherzo dell’anatomia: uno spazio pianeggiante dove i manuali indicavano una sporgenza. Battezzata “fossetta occipitale mediana”, l’anomalia fu eretta da Lombroso, in un saggio del 1876, a segno del destino dell’uomo delinquente. E Villella - “tristissimo uomo d’anni 69, contadino, ipocrita, astuto, taciturno, ostentatore di pratiche religiose, di cute oscura, tutto stortillato, che cammina a sghembo e aveva torcicollo non so bene se a destra o a sinistra” - a suo prototipo scientifico.
A centotrentasei anni di distanza da quella teoria e, soprattutto, a più di un secolo dalla sonora bocciatura della comunità scientifica mondiale che respinse, tra un misto di disprezzo e derisione, gli studi di Lombroso, la testa del calabrese oggi è in vetrina nel museo universitario “Lombroso” di Torino, riallestito nel 2009 con l’intera collezione privata dello studioso. Chi avesse voglia di dargli un’occhiata, però, dovrà affrettarsi.
Su istanza del Comune di Motta Santa Lucia, supportato dal comitato tecnico-scientifico “No Lombroso”, il 3 ottobre scorso il tribunale di Lamezia Terme ha infatti condannato l’università di Torino alla restituzione del cranio al paese calabrese d’origine, nonchè al pagamento delle spese di trasporto e tumulazione. Una querelle giudiziaria surreale? Non esattamente, a guardarci bene dentro.
È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle classi settentrionali: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce i più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale”. Antonio Gramsci, nel 1926, non parla esplicitamente di Lombroso. Non ne ha bisogno.
Era universalmente noto l’appassionato contributo che il veronese, e i suoi seguaci più fedeli (Niceforo, in primis), avevano dato, nella fase post unitaria, alla creazione e diffusione di un’idea del Sud come luogo irredimibile. La questione meridionale? Il malumore dei contadini calabresi, lucani, siciliani, campani? Il brigantaggio? Un problema di strutture anatomiche, di atavismo criminale.
Altro che ragioni storiche, economiche e sociali, altro che terre da distribuire ai contadini: al Sud sono concentrate troppe “fossette occipitali mediane”, ci vive una “razza maledetta” che si può affrontare solo con i tribunali militari e la legge “Pica”.
È in quegli anni, e grazie a Lombroso, che la “diversità” del Meridione entra e si fissa nell’immaginario della neonata nazione italiana nel segno dell’inferiorità antropologica e dell’incomprensione culturale. Errori di valutazione che porteranno, per esempio, a ritenere collegati fenomeni storicamente e geograficamente distinti come brigantaggio e ’ndrangheta, cancellando le ragioni “politiche” del primo e nobilitando pericolosamente l’immagine della seconda. 
Non era di certo un picciotto, e forse non era neppure un brigante, Giuseppe Villella. Entrato nel carcere di Vigevano nel 1863, in cella sopravvisse pochi mesi: morì di tisi in ospedale, offrendo il suo corpo “stortillato” al bisturi e al compasso di Lombroso, titolare della cattedra di psichiatria all’Università di Pavia, che, riconoscente per l’illuminazione ricevuta, sottrasse il suo cranio e lo unì alla raccolta privata di mirabilia.
Da bambino, nei campi di Motta Santa Lucia, nel Lametino, Giuseppe aveva visto passare, trionfanti sui Borboni, i francesi di Bonaparte e, da adulto, arrivare i piemontesi. E tra i vecchi vincoli che si disfacevano e i nuovi, non meno duri, a cui abituarsi, da contadino analfabeta e un po’ straccione non riusciva mai a capire a che santo convenisse votarsi. Una sensazione piuttosto diffusa, di quei tempi e da quelle parti. Lo condannarono per sospetto brigantaggio.
Secondo la legge Pica per essere qualificato brigante, e trasferito automaticamente nelle carceri settentrionali, bastava essere parente di briganti, o essere trovato armato in un gruppo di tre persone. Di certo non c’è canzone o poesia che ne abbia cantato le gesta o resoconti storici che ne segnalino il nome.
Nell’archivio di Stato di Catanzaro si ricorda un Giuseppe Villella fu Pietro condannato nel 1844 per aver rubato a un ricco possidente 5 ricotte, due forme di cacio e due pani. Se si tratta del nostro, insomma, fu di quei briganti un po’ pezzenti e senza seguito, più impegnati a rubare galline che a combattere i piemontesi. Ma a dargli, post mortem, fama perenne ci pensò Lombroso. 
Il Comune di Motta Santa Lucia da anni si batte perché il teschio del concittadino Villella Giuseppe possa essere restituito al paese natale (…) per un riscatto morale della città perché il teschio del Villella non è il simbolo dell’inferiorità meridionale (…) e la sua esposizione viola il sentimento di pietà per i defunti”.Per il giudice Gustavo Danise del Tribunale di Lamezia Terme il comune d’origine del cittadino italiano Giuseppe Villella ha ragioni sacrosante.
Quelle non scritte riguardano la pietas infranta dalla sepoltura negata. Quelle scritte nelle leggi di polizia mortuaria parlano altrettanto forte e chiaro: quel cranio è stato illegittimamente conservato da Lombroso, e illegittimamente è ora esposto dall’Università di Torino. Tanto più che, rigettata da un secolo la teoria di Lombroso, mancano ragioni scientifiche che ne giustifichino possesso ed esposizione.
Dunque, va restituito al comune calabrese, come hanno chiesto il sindaco di Motta Santa Lucia Amedeo Colacino e il comitato “No Lombroso”, impegnato da anni in una campagna contro un museo ritenuto “osceno, inumano e razzista”, cui hanno aderito associazioni e Comuni da tutta Italia (molti quelli lombardi).
Nel frattempo a Motta Santa Lucia ci si prepara a seppellire le vecchie ossa solcate dagli strumenti di Lombroso. E con esse, qualcuno si augura anche l’origine di un pregiudizio ostinato. In un gesto simbolico di riconciliazione tra due mondi che proprio sulla fossetta del cranio di Villella cominciarono a non comprendersi. 


Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/Giuseppe-Villella#ixzz2BzrpKj1M
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Francesca Chirico
Altro che ragioni storiche, economiche e sociali, altro che terre da distribuire ai contadini. Lombroso e i suoi cercarono di dimostrare che i meridionali sono “biologicamente inferiori” come scrisse Gramsci. Ora un comune calabrese rivuole indietro il teschio del “brigante” su cui studiava Lombroso.


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Il "tipo-delinquente" secondo Cesare Lombrosio


Corpi di reato e disegni di “mattoidi”. Pipe e tabacchiere costruite da detenuti. Il pezzo più pregiato della sua collezione privata, raccolta tra campagne nel meridione, carceri e manicomi, Cesare Lombroso però lo teneva in bella vista sulla scrivania, come fermacarte. E poco importa che qualcuno la ritenesse un’abitudine un po’ macabra.
Al teschio del detenuto Giuseppe Villella da Motta Santa Lucia, in Calabria, il medico veronese doveva la scintilla della sua principale scoperta; tra esami e misurazioni, era stata proprio l’autopsia su quel cranio, e su nessun altro, a indurlo a concludere che delinquenti si nasce, e c’è poco da fare.
Tutta colpa di uno scherzo dell’anatomia: uno spazio pianeggiante dove i manuali indicavano una sporgenza. Battezzata “fossetta occipitale mediana”, l’anomalia fu eretta da Lombroso, in un saggio del 1876, a segno del destino dell’uomo delinquente. E Villella - “tristissimo uomo d’anni 69, contadino, ipocrita, astuto, taciturno, ostentatore di pratiche religiose, di cute oscura, tutto stortillato, che cammina a sghembo e aveva torcicollo non so bene se a destra o a sinistra” - a suo prototipo scientifico.
A centotrentasei anni di distanza da quella teoria e, soprattutto, a più di un secolo dalla sonora bocciatura della comunità scientifica mondiale che respinse, tra un misto di disprezzo e derisione, gli studi di Lombroso, la testa del calabrese oggi è in vetrina nel museo universitario “Lombroso” di Torino, riallestito nel 2009 con l’intera collezione privata dello studioso. Chi avesse voglia di dargli un’occhiata, però, dovrà affrettarsi.
Su istanza del Comune di Motta Santa Lucia, supportato dal comitato tecnico-scientifico “No Lombroso”, il 3 ottobre scorso il tribunale di Lamezia Terme ha infatti condannato l’università di Torino alla restituzione del cranio al paese calabrese d’origine, nonchè al pagamento delle spese di trasporto e tumulazione. Una querelle giudiziaria surreale? Non esattamente, a guardarci bene dentro.
È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle classi settentrionali: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce i più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale”. Antonio Gramsci, nel 1926, non parla esplicitamente di Lombroso. Non ne ha bisogno.
Era universalmente noto l’appassionato contributo che il veronese, e i suoi seguaci più fedeli (Niceforo, in primis), avevano dato, nella fase post unitaria, alla creazione e diffusione di un’idea del Sud come luogo irredimibile. La questione meridionale? Il malumore dei contadini calabresi, lucani, siciliani, campani? Il brigantaggio? Un problema di strutture anatomiche, di atavismo criminale.
Altro che ragioni storiche, economiche e sociali, altro che terre da distribuire ai contadini: al Sud sono concentrate troppe “fossette occipitali mediane”, ci vive una “razza maledetta” che si può affrontare solo con i tribunali militari e la legge “Pica”.
È in quegli anni, e grazie a Lombroso, che la “diversità” del Meridione entra e si fissa nell’immaginario della neonata nazione italiana nel segno dell’inferiorità antropologica e dell’incomprensione culturale. Errori di valutazione che porteranno, per esempio, a ritenere collegati fenomeni storicamente e geograficamente distinti come brigantaggio e ’ndrangheta, cancellando le ragioni “politiche” del primo e nobilitando pericolosamente l’immagine della seconda. 
Non era di certo un picciotto, e forse non era neppure un brigante, Giuseppe Villella. Entrato nel carcere di Vigevano nel 1863, in cella sopravvisse pochi mesi: morì di tisi in ospedale, offrendo il suo corpo “stortillato” al bisturi e al compasso di Lombroso, titolare della cattedra di psichiatria all’Università di Pavia, che, riconoscente per l’illuminazione ricevuta, sottrasse il suo cranio e lo unì alla raccolta privata di mirabilia.
Da bambino, nei campi di Motta Santa Lucia, nel Lametino, Giuseppe aveva visto passare, trionfanti sui Borboni, i francesi di Bonaparte e, da adulto, arrivare i piemontesi. E tra i vecchi vincoli che si disfacevano e i nuovi, non meno duri, a cui abituarsi, da contadino analfabeta e un po’ straccione non riusciva mai a capire a che santo convenisse votarsi. Una sensazione piuttosto diffusa, di quei tempi e da quelle parti. Lo condannarono per sospetto brigantaggio.
Secondo la legge Pica per essere qualificato brigante, e trasferito automaticamente nelle carceri settentrionali, bastava essere parente di briganti, o essere trovato armato in un gruppo di tre persone. Di certo non c’è canzone o poesia che ne abbia cantato le gesta o resoconti storici che ne segnalino il nome.
Nell’archivio di Stato di Catanzaro si ricorda un Giuseppe Villella fu Pietro condannato nel 1844 per aver rubato a un ricco possidente 5 ricotte, due forme di cacio e due pani. Se si tratta del nostro, insomma, fu di quei briganti un po’ pezzenti e senza seguito, più impegnati a rubare galline che a combattere i piemontesi. Ma a dargli, post mortem, fama perenne ci pensò Lombroso. 
Il Comune di Motta Santa Lucia da anni si batte perché il teschio del concittadino Villella Giuseppe possa essere restituito al paese natale (…) per un riscatto morale della città perché il teschio del Villella non è il simbolo dell’inferiorità meridionale (…) e la sua esposizione viola il sentimento di pietà per i defunti”.Per il giudice Gustavo Danise del Tribunale di Lamezia Terme il comune d’origine del cittadino italiano Giuseppe Villella ha ragioni sacrosante.
Quelle non scritte riguardano la pietas infranta dalla sepoltura negata. Quelle scritte nelle leggi di polizia mortuaria parlano altrettanto forte e chiaro: quel cranio è stato illegittimamente conservato da Lombroso, e illegittimamente è ora esposto dall’Università di Torino. Tanto più che, rigettata da un secolo la teoria di Lombroso, mancano ragioni scientifiche che ne giustifichino possesso ed esposizione.
Dunque, va restituito al comune calabrese, come hanno chiesto il sindaco di Motta Santa Lucia Amedeo Colacino e il comitato “No Lombroso”, impegnato da anni in una campagna contro un museo ritenuto “osceno, inumano e razzista”, cui hanno aderito associazioni e Comuni da tutta Italia (molti quelli lombardi).
Nel frattempo a Motta Santa Lucia ci si prepara a seppellire le vecchie ossa solcate dagli strumenti di Lombroso. E con esse, qualcuno si augura anche l’origine di un pregiudizio ostinato. In un gesto simbolico di riconciliazione tra due mondi che proprio sulla fossetta del cranio di Villella cominciarono a non comprendersi. 


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