domenica 24 giugno 2012

I dieci punti sull’intervento straordinario che non avevate mai osato chiedere. Parte prima.

A cura di Maria Carannante
Fonte: Unblognormale

L’intervento straordinario per lo sviluppo delle aree depresse è stato lo strumento di politica economica di maggior interesse del secolo scorso. Durato quarant’anni e frutto dell’influenza del pensiero economico e delle condizioni socio - economiche non solo italiane, ma anche dell’Europa e degli USA di quel periodo, è di certo oggetto di un acceso dibattito che sembra non essersi ancora concluso.

Cresciuto insieme alla questione meridionale, anche se non è nato con essa, si è radicato nei ricordi attraverso giudizi poco veritieri e poco documentati.
L’articolo tenta di fare luce su alcuni punti più o meno conosciuti in modo rendere più trasparenti finalità, esecuzione ed effetti dell’intervento. L’articolo non si pone obiettivi di esaustività, rimandando a fonti più autorevoli, ma di mettere in discussione alcuni assiomi che sono nati sul tema.1
Esso è suddiviso in dieci punti ed è riportato in tre parti per semplificarne la lettura.

1. Determina il punto di rottura tra il meridionalismo classico e il nuovo meridionalismo:

Si definisce nuovo meridionalismo la corrente di pensiero nata nel dopoguerra e si distingue dal pensiero meridionalista fino ad allora adottato e definito classico perché ha introdotto l’importanza del coinvolgimento delle classi dirigenti del Nord allo sviluppo del Sud. In altri termini, secondo la nuova corrente, la convergenza economica delle due aree non può prescindere dalla convergenza politica.

Nel meridionalismo classico sono identificabili fondamentalmente due posizioni; secondo la prima il meccanismo di mercato porterà al superamento della situazione di dualismo e l’azione pubblica potrà facilitare quel superamento, senza che occorra far ricorso a misure che non siano proprie di quel meccanismo. L’altra posizione ha come presupposto che sia di importanza pregiudiziale, per il progresso del nostro Paese, un mutamento radicale o addirittura rivoluzionario degli equilibri politici e dell’ordinamento dello Stato; in un quadro profondamente mutato, i problemi del Paese, inclusa tra essi la questione meridionale, si sarebbero presentati in termini ovviamente del tutto nuovi e in quei termini essi sarebbero stati affrontati. Sembra evidente che le due opposte posizioni hanno come comune caratteristica un limitato interesse per l’identificazione di processi che, una volta avviati nel sistema di rapporti esistente, concorressero alla unificazione economica e sociale del Paese.” [1]
Il nuovo meridionalismo si pone in linea con due filoni di pensiero che hanno caratterizzato gli anni del dopoguerra e in contrapposizione con gli studi finora presentati sulla questione meridionale: il primo è il modello economico keynesiano, che prevedeva un intenso intervento pubblico per lo sviluppo, l’altro è il sistema politico bipolare, che ha portato alla creazione delle sfere di influenza e che ha condizionato il ripristino dei confini precedenti al 1943 onde evitare l’isolamento degli stati italici che altrimenti sarebbe avvenuto.
Il pensiero neomeridionalista fu sintetizzato da Pasquale Saraceno in due proposizioni: secondo la prima la questione meridionale era una questione nazionale e lo stato italiano non poteva esimersi dalla sua risoluzione, secondo l’altra la condizione necessaria, ma non sufficiente, per il superamento della questione meridionale era l’industrializzazione del Mezzogiorno. Ne conseguiva che lo stato italiano avrebbe dovuto farsi carico dell’industrializzazione del Mezzogiorno per garantire la sua stessa sopravvivenza. [2]
È l’incontro tra queste due correnti che permise la definizione dell’intervento straordinario. Esso, infatti, fu presentato come uno strumento di politica economica finalizzato all’intensificazione e modernizzazione del settore agricolo, alla nascita del settore industriale e allo stimolo di una domanda che potesse far fronte all’offerta così creatasi.

2. È stato realizzato attraverso quattro fasi distinte:

I quarant’anni dell’intervento straordinario possono essere approssimativamente essere suddivisi in quattro fasi: [3]
  • La prima fase, relativa all’istituzione della Cassa e allo Schema Vanoni, che ha previsto sostanzialmente gli investimenti per la preindustrializzazione delle aree depresse;
  • La seconda fase, cominciata alla fine della programmazione prevista dallo Schema Vanoni e finita negli anni ‘70, che ha previsto un notevole aumento degli incentivi per l’industrializzazione delle aree depresse;
  • La terza fase, dell’industrializzazione esterna, caratteristica degli anni ‘70 e ‘80, che ha previsto la nascita di insediamenti industriali “programmati” nell’area. Si tratta della politica dei poli di sviluppo.
  • La quarta fase, dello sviluppo assistito, istituita nella metà degli anni ‘70 fino alla chiusura dell’intervento straordinario, limitata al sostegno dei redditi delle famiglie.
L’intervento straordinario è stato legato principalmente due organismi “centrali”. Il primo è la Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia Meridionale, un ente pubblico con sede a Roma con lo scopo di coordinare la gestione delle risorse finalizzate allo sviluppo, l’altro è Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno (SVIMEZ), privata senza fini di lucro, con sede a Roma e con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo nel Mezzogiorno.
Il primo intervento pubblico gestito dalla Cassa fu lo Schema di sviluppo della occupazione e del reddito del decennio 1955 - 1964, noto anche come Schema Vanoni, redatto dalla SVIMEZ e che ha introdotto per la prima volta la necessità di un intervento programmatico di sviluppo. In particolare, esso era basato sull’idea che:
Lo squilibrio Nord - Sud veniva a costituire una delle principali manifestazioni di inefficienza del sistema economico italiano.” [4]
E gli investimenti, così come predisposti fino ad allora, rappresentavano un’inefficienza dell’intervento pubblico, che dovevano essere ridefiniti in un’ottica di industrializzazione del Mezzogiorno, ripartendo la spesa per la creazione di un’economia autopropulsiva nella misura del 48% al Sud e del 52% al Nord.
La novità introdotta dallo schema Vanoni fu sostanzialmente quella di considerare il Mezzogiorno in un’ottica sistemica rispetto allo stato italiano, abbandonando quell’idea di indipendenza della questione meridionale dagli obiettivi di politica economica dello stato italiano che ha caratterizzato gli interventi fino ad allora. [5]
Lo Schema Vanoni si è posto come obiettivo quello di indirizzare la spesa pubblica all’incremento della quota dei redditi privati destinata al risparmio e all’investimento piuttosto che al consumo per un periodo medio - lungo, indicato nello schema stesso in dieci anni [6]. I limiti di questo approccio risultarono evidenti dal punto di vista del pensiero neomeridionalista, secondo cui esso appariva come un mero esercizio macroeconomico che non poteva essere d’aiuto all’industrializzazione dell’area. [6]

Per questa ragione si è ritenuto necessario intervenire direttamente nel processo di industrializzazione, attraverso politiche di incentivi prima e la localizzazione di imprese pubbliche poi al fine di stimolare la nascita di distretti industriali formati da piccole e medie imprese.
Gli incentivi avevano sostanzialmente lo scopo di proteggere le imprese meridionali dall’invasione delle imprese del Centro - Nord che operavano in condizioni vantaggiose rispetto ad esse, i poli di sviluppo invece di sollecitare la nascita di sistemi distrettuali di piccole imprese. [6]
La crisi di questa fase di intervento si fece sentire presto: le ragioni del fallimento della politica di industrializzazione esterna erano sostanzialmente legate a scelte di investimento sbagliate. Sono state privilegiate grandi imprese ad alta intensità di capitale, che non hanno attenuato il problema della disoccupazione e il relativo fenomeno migratorio nell’area, con impianti spesso sottodimensionati e localizzati più in funzione di convenienza politica che di effettive opportunità di sviluppo. [7] A ciò bisogna aggiungere che gran parte delle imprese che si insediarono nel Mezzogiorno mantennero i rapporti con le case madri ed erano di fatto gestite da esse. Ciò ha impedito la creazione di un adeguato capitale umano nel Mezzogiorno e la gestione dei poli avveniva privilegiando gli interessi dell’area di origine. [7]

La crisi dei poli di sviluppo è stata poi accentuata dallo choc petrolifero, dal malcontento della gestione delle risorse pubbliche e dall’istituzione delle regioni a statuto ordinario che hanno portato, nel 1984, alla chiusura della Cassa, sostituita due anni dopo dall’Agenzia della promozione dello sviluppo del Mezzogiorno (Agensud), con il compito di erogare incentivi ed approvare piani di investimento proposti dai neonati enti locali. [8] L’istituzione dell’Agensud aveva infatti lo scopo di affidare a livello locale il compito di promuovere lo sviluppo, attraverso una programmazione specifica per ogni singola regione.
In realtà questa fase dell’intervento straordinario ha messo in luce le difficoltà di comunicazione tra le istituzioni di diverso livello: le regioni si dimostrarono incapaci di gestire le risorse straordinarie a disposizione né fu data loro la possibilità di partecipare davvero alla programmazione, rimasta nelle mani dell’amministrazione centrale. [8]
Di conseguenza, le politiche attuate in quest’ultima fase di intervento furono sostanzialmente di sostegno dei redditi delle famiglie. [3]
L’intervento straordinario venne chiuso nel 1992, a causa principalmente delle politiche di revisione dei conti pubblici richieste per l’ingresso nel mercato unico europeo. La chiusura dell’intervento straordinario ha determinato una notevole riduzione della spesa pubblica nell’area che ha inevitabilmente causato la contrazione dei redditi delle famiglie, essendo venuto meno il sostegno su cui fino ad allora avevano contato. [9]

3. È stato possibile grazie all’appoggio degli organismi internazionali:

L’intervento straordinario è stato in larga parte ispirato alla New Deal, applicata negli Stati Uniti per far fronte alla grande depressione del 1929. In particolare la Cassa ricorda la Tennessee Valley Authority voluta da Roosvelt per incentivare lo sviluppo della valle del Tennesse. L’idea di fondo in entrambi i casi è stata la creazione di un unico ente che coordinasse sia gli interventi di modernizzazione del settore agricolo che quelli di sviluppo industriale atti a stimolare la crescita economica delle aree in forte ritardo con lo sviluppo. In Italia ci fu comunque una precedente esperienza di questo tipo tramite la costituzione dell’IRI. [10]
Per la realizzazione della prima fase dell’intervento, inoltre, ci fu il coinvolgimento della Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS), con un duplice scopo: il primo era quello di assicurarsi la creazione di un piano di sviluppo preciso ed efficace, l’altro era il consolidamento dei rapporti tra Italia e Stati Uniti. [11]
L’intervento della BIRS fu visto in un’ottica di prolungamento del Piano Marshall limitatamente alle aree in ritardo con lo sviluppo e, tramite precedenti accordi con la SVIMEZ, esso si realizzò, oltre che con il finanziamento delle singole opere realizzate, con la messa in circolazione di dollari a supporto della crescita dei consumi e delle importazioni di materie prime. Ciò permise all’Italia anche di poter essere competitiva nelle esportazioni. [11]
Dal canto suo, la BIRS trovò conveniente poter prendere parte alle decisioni del più grande e attraente piano di sviluppo regionale del mondo, così come fu definito in uno dei suoi rapporti, pur contribuendo in misura minima al progetto, ovvero per circa un decimo del totale dell’importo da stanziare. [11]

4. È stata un’iniziativa proposta e approvata sia dagli studiosi del nuovo meridionalismo che dalle classi dirigenti del Nord:

La fondazione nel 1946 della SVIMEZ può essere vista come l’incontro tra il neomeridionalismo, rappresentato da Rodolfo Morandi, e le politiche di industrializzazione, rappresentate da Pasquale Saraceno. [11]
La politica della SVIMEZ si opponeva fortemente alla visione padano - centrica adottata dal primo IRI [2]. Nonostante ciò, la nascita dell’associazione non interessò solo gli USA, che intervenne attraverso i finanziamenti del Piano Marshall e la BIRS, ma anche la classe imprenditoriale del Nord, che vide nell’industrializzazione del Mezzogiorno un’opportunità per la modernizzazione dell’economia di tutto il Paese, così come auspicato dagli economisti neomeridionalisti. Alla costituzione della SVIMEZ, infatti, parteciparono anche le grandi imprese del triangolo industriale.

Alla SVIMEZ si associarono immediatamente, oltre alla Banca d’Italia e alle principali banche nazionali, la Confindustria, la Federconsorzi, tutte le imprese IRI e le principali imprese private italiane, tra cui la FIAT, la Montecatini, la Breda, la Pirelli, la Innocenti, la Olivetti, nonché il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, e alcune camere di commercio, consorzi di bonifica, banche e imprese locali.” [11]
Era l’intera economia italiana, infatti, ad essere in seria difficoltà nel dopoguerra. Il Nord, nonostante le migliori condizioni economiche che poteva vantare rispetto al Sud, era notevolmente arretrato rispetto all’Europa occidentale e gli USA. L’economia italiana ristagnava dagli inizi del XX secolo e le prospettive di crescita erano misere senza un’adeguata politica di sviluppo per tutto il Paese. Era quindi la crescita del reddito nazionale il vero obiettivo posto dall’intervento straordinario. [11]
L’intervento straordinario, quindi, divenne un accordo tra la classe imprenditoriale del Nord e gli economisti neomeridionalisti, che diede vita ad un piano di interventi che non ledesse gli interessi dei primi. La classe imprenditoriale del Nord aveva infatti interesse al mantenimento del dualismo che caratterizzava l’economia italiana e auspicava uno sviluppo nel Mezzogiorno che si limitasse al settore terziario, in modo da poter invadere il mercato che si sarebbe venuto a creare con il proprio settore secondario. [3]
Ciò si realizzò attraverso la separazione della fase degli investimenti in infrastrutture da quella dell’industrializzazione ha permesso alle imprese del Nord di insediarsi al Sud.

L’aver creato al Sud prima le infrastrutture e poi le industrie […] ha fatto sì che il processo moltiplicativo alimentato dalla spesa per opere pubbliche al Sud ha favorito l’industrializzazione al Nord, perché la maggior domanda di prodotti industriali dei meridionali dovuta alla spesa pubblica, non avendo trovato un’offerta di prodotti industriali al Sud, è rifluita al Nord, alimentando […] il dualismo.” [3]
Il successivo insediamento delle imprese pubbliche nel Mezzogiorno non è stato sufficiente allo sviluppo dell’area, dato che le neonate imprese locali non riuscirono comunque a reggere la concorrenza delle imprese del Nord.2


Riferimenti:

[1] Saraceno, P., “Il nuovo meridionalismo.”, in “Quaderni del trentennale 1975 - 2005”, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 2005.
[2] Saraceno, P., “Morandi e il nuovo meridionalismo.”, in “Rivista Apulia, numero IV - 81”, Banca Popolare Pugliese, Lecce, Dicembre 1981.
[3] Jossa, B., “Il Mezzogiorno e lo sviluppo dall’alto.”, in “Rivista economica del Mezzogiorno, anno XV, numero 3”, Settembre 2001.
[4] Alemanno, C., “Problemi dello sviluppo meridionale.”, in “Rivista Apulia, numero IV - 83”, Banca Popolare Pugliese, Lecce, Dicembre 1983.
[5] Novacco, N., “Alcune scelte degli anni ’50 per il Mezzogiorno.”, in “Rivista Economica del Mezzogiorno, anno XV, numero 1 - 2”, Marzo - Giugno 2001.
[6] Pica, F., “Salvatore Cafiero e la «Storia» dell’intervento straordinario.”, in “Rivista economica del Mezzogiorno, anno XV, numero 3”, Settembre 2001.
[7] Cerrito, E., “La politica dei poli di sviluppo nel Mezzogiorno. Elementi per una prospettiva storica.”, in “Quaderni di Storia Economica, numero 3.”, Banca d’Italia, Giugno 2011.
[8] Trono, A., “Squilibri regionali in Italia e politiche di intervento pubblico per lo sviluppo dell’occupazione locale.”, in “Anales de Estudios Economicos Y Empresaliares”, Universidad de Valladolid, 1993.
[9] OCSE, “Assessment and Recommendations, in OECD Territorial Reviews – Italy.”, traduzione italiana, Parigi-Roma, Settembre 2001.
[10] Lepore, A., “Cassa per il Mezzogiorno e politiche per lo sviluppo.”, in “SSRN working papers series”, Gennaio 2012.
[11] D’Antone, L., “L’«interesse straordinario» per il Mezzogiorno (1943-1960).”, in “Meridiana, numero 24”, 1995.

1 Sono ovviamente bene accette domande, suggerimenti, approfondimenti e correzioni.

2 E la situazione, ad oggi, non sembra essere migliorata.
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A cura di Maria Carannante
Fonte: Unblognormale

L’intervento straordinario per lo sviluppo delle aree depresse è stato lo strumento di politica economica di maggior interesse del secolo scorso. Durato quarant’anni e frutto dell’influenza del pensiero economico e delle condizioni socio - economiche non solo italiane, ma anche dell’Europa e degli USA di quel periodo, è di certo oggetto di un acceso dibattito che sembra non essersi ancora concluso.

Cresciuto insieme alla questione meridionale, anche se non è nato con essa, si è radicato nei ricordi attraverso giudizi poco veritieri e poco documentati.
L’articolo tenta di fare luce su alcuni punti più o meno conosciuti in modo rendere più trasparenti finalità, esecuzione ed effetti dell’intervento. L’articolo non si pone obiettivi di esaustività, rimandando a fonti più autorevoli, ma di mettere in discussione alcuni assiomi che sono nati sul tema.1
Esso è suddiviso in dieci punti ed è riportato in tre parti per semplificarne la lettura.

1. Determina il punto di rottura tra il meridionalismo classico e il nuovo meridionalismo:

Si definisce nuovo meridionalismo la corrente di pensiero nata nel dopoguerra e si distingue dal pensiero meridionalista fino ad allora adottato e definito classico perché ha introdotto l’importanza del coinvolgimento delle classi dirigenti del Nord allo sviluppo del Sud. In altri termini, secondo la nuova corrente, la convergenza economica delle due aree non può prescindere dalla convergenza politica.

Nel meridionalismo classico sono identificabili fondamentalmente due posizioni; secondo la prima il meccanismo di mercato porterà al superamento della situazione di dualismo e l’azione pubblica potrà facilitare quel superamento, senza che occorra far ricorso a misure che non siano proprie di quel meccanismo. L’altra posizione ha come presupposto che sia di importanza pregiudiziale, per il progresso del nostro Paese, un mutamento radicale o addirittura rivoluzionario degli equilibri politici e dell’ordinamento dello Stato; in un quadro profondamente mutato, i problemi del Paese, inclusa tra essi la questione meridionale, si sarebbero presentati in termini ovviamente del tutto nuovi e in quei termini essi sarebbero stati affrontati. Sembra evidente che le due opposte posizioni hanno come comune caratteristica un limitato interesse per l’identificazione di processi che, una volta avviati nel sistema di rapporti esistente, concorressero alla unificazione economica e sociale del Paese.” [1]
Il nuovo meridionalismo si pone in linea con due filoni di pensiero che hanno caratterizzato gli anni del dopoguerra e in contrapposizione con gli studi finora presentati sulla questione meridionale: il primo è il modello economico keynesiano, che prevedeva un intenso intervento pubblico per lo sviluppo, l’altro è il sistema politico bipolare, che ha portato alla creazione delle sfere di influenza e che ha condizionato il ripristino dei confini precedenti al 1943 onde evitare l’isolamento degli stati italici che altrimenti sarebbe avvenuto.
Il pensiero neomeridionalista fu sintetizzato da Pasquale Saraceno in due proposizioni: secondo la prima la questione meridionale era una questione nazionale e lo stato italiano non poteva esimersi dalla sua risoluzione, secondo l’altra la condizione necessaria, ma non sufficiente, per il superamento della questione meridionale era l’industrializzazione del Mezzogiorno. Ne conseguiva che lo stato italiano avrebbe dovuto farsi carico dell’industrializzazione del Mezzogiorno per garantire la sua stessa sopravvivenza. [2]
È l’incontro tra queste due correnti che permise la definizione dell’intervento straordinario. Esso, infatti, fu presentato come uno strumento di politica economica finalizzato all’intensificazione e modernizzazione del settore agricolo, alla nascita del settore industriale e allo stimolo di una domanda che potesse far fronte all’offerta così creatasi.

2. È stato realizzato attraverso quattro fasi distinte:

I quarant’anni dell’intervento straordinario possono essere approssimativamente essere suddivisi in quattro fasi: [3]
  • La prima fase, relativa all’istituzione della Cassa e allo Schema Vanoni, che ha previsto sostanzialmente gli investimenti per la preindustrializzazione delle aree depresse;
  • La seconda fase, cominciata alla fine della programmazione prevista dallo Schema Vanoni e finita negli anni ‘70, che ha previsto un notevole aumento degli incentivi per l’industrializzazione delle aree depresse;
  • La terza fase, dell’industrializzazione esterna, caratteristica degli anni ‘70 e ‘80, che ha previsto la nascita di insediamenti industriali “programmati” nell’area. Si tratta della politica dei poli di sviluppo.
  • La quarta fase, dello sviluppo assistito, istituita nella metà degli anni ‘70 fino alla chiusura dell’intervento straordinario, limitata al sostegno dei redditi delle famiglie.
L’intervento straordinario è stato legato principalmente due organismi “centrali”. Il primo è la Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia Meridionale, un ente pubblico con sede a Roma con lo scopo di coordinare la gestione delle risorse finalizzate allo sviluppo, l’altro è Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno (SVIMEZ), privata senza fini di lucro, con sede a Roma e con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo nel Mezzogiorno.
Il primo intervento pubblico gestito dalla Cassa fu lo Schema di sviluppo della occupazione e del reddito del decennio 1955 - 1964, noto anche come Schema Vanoni, redatto dalla SVIMEZ e che ha introdotto per la prima volta la necessità di un intervento programmatico di sviluppo. In particolare, esso era basato sull’idea che:
Lo squilibrio Nord - Sud veniva a costituire una delle principali manifestazioni di inefficienza del sistema economico italiano.” [4]
E gli investimenti, così come predisposti fino ad allora, rappresentavano un’inefficienza dell’intervento pubblico, che dovevano essere ridefiniti in un’ottica di industrializzazione del Mezzogiorno, ripartendo la spesa per la creazione di un’economia autopropulsiva nella misura del 48% al Sud e del 52% al Nord.
La novità introdotta dallo schema Vanoni fu sostanzialmente quella di considerare il Mezzogiorno in un’ottica sistemica rispetto allo stato italiano, abbandonando quell’idea di indipendenza della questione meridionale dagli obiettivi di politica economica dello stato italiano che ha caratterizzato gli interventi fino ad allora. [5]
Lo Schema Vanoni si è posto come obiettivo quello di indirizzare la spesa pubblica all’incremento della quota dei redditi privati destinata al risparmio e all’investimento piuttosto che al consumo per un periodo medio - lungo, indicato nello schema stesso in dieci anni [6]. I limiti di questo approccio risultarono evidenti dal punto di vista del pensiero neomeridionalista, secondo cui esso appariva come un mero esercizio macroeconomico che non poteva essere d’aiuto all’industrializzazione dell’area. [6]

Per questa ragione si è ritenuto necessario intervenire direttamente nel processo di industrializzazione, attraverso politiche di incentivi prima e la localizzazione di imprese pubbliche poi al fine di stimolare la nascita di distretti industriali formati da piccole e medie imprese.
Gli incentivi avevano sostanzialmente lo scopo di proteggere le imprese meridionali dall’invasione delle imprese del Centro - Nord che operavano in condizioni vantaggiose rispetto ad esse, i poli di sviluppo invece di sollecitare la nascita di sistemi distrettuali di piccole imprese. [6]
La crisi di questa fase di intervento si fece sentire presto: le ragioni del fallimento della politica di industrializzazione esterna erano sostanzialmente legate a scelte di investimento sbagliate. Sono state privilegiate grandi imprese ad alta intensità di capitale, che non hanno attenuato il problema della disoccupazione e il relativo fenomeno migratorio nell’area, con impianti spesso sottodimensionati e localizzati più in funzione di convenienza politica che di effettive opportunità di sviluppo. [7] A ciò bisogna aggiungere che gran parte delle imprese che si insediarono nel Mezzogiorno mantennero i rapporti con le case madri ed erano di fatto gestite da esse. Ciò ha impedito la creazione di un adeguato capitale umano nel Mezzogiorno e la gestione dei poli avveniva privilegiando gli interessi dell’area di origine. [7]

La crisi dei poli di sviluppo è stata poi accentuata dallo choc petrolifero, dal malcontento della gestione delle risorse pubbliche e dall’istituzione delle regioni a statuto ordinario che hanno portato, nel 1984, alla chiusura della Cassa, sostituita due anni dopo dall’Agenzia della promozione dello sviluppo del Mezzogiorno (Agensud), con il compito di erogare incentivi ed approvare piani di investimento proposti dai neonati enti locali. [8] L’istituzione dell’Agensud aveva infatti lo scopo di affidare a livello locale il compito di promuovere lo sviluppo, attraverso una programmazione specifica per ogni singola regione.
In realtà questa fase dell’intervento straordinario ha messo in luce le difficoltà di comunicazione tra le istituzioni di diverso livello: le regioni si dimostrarono incapaci di gestire le risorse straordinarie a disposizione né fu data loro la possibilità di partecipare davvero alla programmazione, rimasta nelle mani dell’amministrazione centrale. [8]
Di conseguenza, le politiche attuate in quest’ultima fase di intervento furono sostanzialmente di sostegno dei redditi delle famiglie. [3]
L’intervento straordinario venne chiuso nel 1992, a causa principalmente delle politiche di revisione dei conti pubblici richieste per l’ingresso nel mercato unico europeo. La chiusura dell’intervento straordinario ha determinato una notevole riduzione della spesa pubblica nell’area che ha inevitabilmente causato la contrazione dei redditi delle famiglie, essendo venuto meno il sostegno su cui fino ad allora avevano contato. [9]

3. È stato possibile grazie all’appoggio degli organismi internazionali:

L’intervento straordinario è stato in larga parte ispirato alla New Deal, applicata negli Stati Uniti per far fronte alla grande depressione del 1929. In particolare la Cassa ricorda la Tennessee Valley Authority voluta da Roosvelt per incentivare lo sviluppo della valle del Tennesse. L’idea di fondo in entrambi i casi è stata la creazione di un unico ente che coordinasse sia gli interventi di modernizzazione del settore agricolo che quelli di sviluppo industriale atti a stimolare la crescita economica delle aree in forte ritardo con lo sviluppo. In Italia ci fu comunque una precedente esperienza di questo tipo tramite la costituzione dell’IRI. [10]
Per la realizzazione della prima fase dell’intervento, inoltre, ci fu il coinvolgimento della Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS), con un duplice scopo: il primo era quello di assicurarsi la creazione di un piano di sviluppo preciso ed efficace, l’altro era il consolidamento dei rapporti tra Italia e Stati Uniti. [11]
L’intervento della BIRS fu visto in un’ottica di prolungamento del Piano Marshall limitatamente alle aree in ritardo con lo sviluppo e, tramite precedenti accordi con la SVIMEZ, esso si realizzò, oltre che con il finanziamento delle singole opere realizzate, con la messa in circolazione di dollari a supporto della crescita dei consumi e delle importazioni di materie prime. Ciò permise all’Italia anche di poter essere competitiva nelle esportazioni. [11]
Dal canto suo, la BIRS trovò conveniente poter prendere parte alle decisioni del più grande e attraente piano di sviluppo regionale del mondo, così come fu definito in uno dei suoi rapporti, pur contribuendo in misura minima al progetto, ovvero per circa un decimo del totale dell’importo da stanziare. [11]

4. È stata un’iniziativa proposta e approvata sia dagli studiosi del nuovo meridionalismo che dalle classi dirigenti del Nord:

La fondazione nel 1946 della SVIMEZ può essere vista come l’incontro tra il neomeridionalismo, rappresentato da Rodolfo Morandi, e le politiche di industrializzazione, rappresentate da Pasquale Saraceno. [11]
La politica della SVIMEZ si opponeva fortemente alla visione padano - centrica adottata dal primo IRI [2]. Nonostante ciò, la nascita dell’associazione non interessò solo gli USA, che intervenne attraverso i finanziamenti del Piano Marshall e la BIRS, ma anche la classe imprenditoriale del Nord, che vide nell’industrializzazione del Mezzogiorno un’opportunità per la modernizzazione dell’economia di tutto il Paese, così come auspicato dagli economisti neomeridionalisti. Alla costituzione della SVIMEZ, infatti, parteciparono anche le grandi imprese del triangolo industriale.

Alla SVIMEZ si associarono immediatamente, oltre alla Banca d’Italia e alle principali banche nazionali, la Confindustria, la Federconsorzi, tutte le imprese IRI e le principali imprese private italiane, tra cui la FIAT, la Montecatini, la Breda, la Pirelli, la Innocenti, la Olivetti, nonché il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, e alcune camere di commercio, consorzi di bonifica, banche e imprese locali.” [11]
Era l’intera economia italiana, infatti, ad essere in seria difficoltà nel dopoguerra. Il Nord, nonostante le migliori condizioni economiche che poteva vantare rispetto al Sud, era notevolmente arretrato rispetto all’Europa occidentale e gli USA. L’economia italiana ristagnava dagli inizi del XX secolo e le prospettive di crescita erano misere senza un’adeguata politica di sviluppo per tutto il Paese. Era quindi la crescita del reddito nazionale il vero obiettivo posto dall’intervento straordinario. [11]
L’intervento straordinario, quindi, divenne un accordo tra la classe imprenditoriale del Nord e gli economisti neomeridionalisti, che diede vita ad un piano di interventi che non ledesse gli interessi dei primi. La classe imprenditoriale del Nord aveva infatti interesse al mantenimento del dualismo che caratterizzava l’economia italiana e auspicava uno sviluppo nel Mezzogiorno che si limitasse al settore terziario, in modo da poter invadere il mercato che si sarebbe venuto a creare con il proprio settore secondario. [3]
Ciò si realizzò attraverso la separazione della fase degli investimenti in infrastrutture da quella dell’industrializzazione ha permesso alle imprese del Nord di insediarsi al Sud.

L’aver creato al Sud prima le infrastrutture e poi le industrie […] ha fatto sì che il processo moltiplicativo alimentato dalla spesa per opere pubbliche al Sud ha favorito l’industrializzazione al Nord, perché la maggior domanda di prodotti industriali dei meridionali dovuta alla spesa pubblica, non avendo trovato un’offerta di prodotti industriali al Sud, è rifluita al Nord, alimentando […] il dualismo.” [3]
Il successivo insediamento delle imprese pubbliche nel Mezzogiorno non è stato sufficiente allo sviluppo dell’area, dato che le neonate imprese locali non riuscirono comunque a reggere la concorrenza delle imprese del Nord.2


Riferimenti:

[1] Saraceno, P., “Il nuovo meridionalismo.”, in “Quaderni del trentennale 1975 - 2005”, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 2005.
[2] Saraceno, P., “Morandi e il nuovo meridionalismo.”, in “Rivista Apulia, numero IV - 81”, Banca Popolare Pugliese, Lecce, Dicembre 1981.
[3] Jossa, B., “Il Mezzogiorno e lo sviluppo dall’alto.”, in “Rivista economica del Mezzogiorno, anno XV, numero 3”, Settembre 2001.
[4] Alemanno, C., “Problemi dello sviluppo meridionale.”, in “Rivista Apulia, numero IV - 83”, Banca Popolare Pugliese, Lecce, Dicembre 1983.
[5] Novacco, N., “Alcune scelte degli anni ’50 per il Mezzogiorno.”, in “Rivista Economica del Mezzogiorno, anno XV, numero 1 - 2”, Marzo - Giugno 2001.
[6] Pica, F., “Salvatore Cafiero e la «Storia» dell’intervento straordinario.”, in “Rivista economica del Mezzogiorno, anno XV, numero 3”, Settembre 2001.
[7] Cerrito, E., “La politica dei poli di sviluppo nel Mezzogiorno. Elementi per una prospettiva storica.”, in “Quaderni di Storia Economica, numero 3.”, Banca d’Italia, Giugno 2011.
[8] Trono, A., “Squilibri regionali in Italia e politiche di intervento pubblico per lo sviluppo dell’occupazione locale.”, in “Anales de Estudios Economicos Y Empresaliares”, Universidad de Valladolid, 1993.
[9] OCSE, “Assessment and Recommendations, in OECD Territorial Reviews – Italy.”, traduzione italiana, Parigi-Roma, Settembre 2001.
[10] Lepore, A., “Cassa per il Mezzogiorno e politiche per lo sviluppo.”, in “SSRN working papers series”, Gennaio 2012.
[11] D’Antone, L., “L’«interesse straordinario» per il Mezzogiorno (1943-1960).”, in “Meridiana, numero 24”, 1995.

1 Sono ovviamente bene accette domande, suggerimenti, approfondimenti e correzioni.

2 E la situazione, ad oggi, non sembra essere migliorata.

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