martedì 1 maggio 2012

"Controstoria della liberazione" di Gigi Di Fiore


Rizzoli Editore, 358 pp., 19,00 euro



Ci ha abituato ad accogliere la versione dei vinti dell’unità d’Italia, superando il disprezzo per l’insipienza borbonica e per il brigantaggio. Adesso, tenta il salto nella storia contemporanea Gigi Di Fiore, trattando le stragi e i crimini dimenticati degli Alleati nel sud d’Italia. Il suo libro, però, non mira a rovesciare l’ortodossia con la denuncia del rimosso. E infatti, citando Javier Cercas difensore del revisionismo, l’autore dichiara subito il suo intento: “Non contestare il significato storico e morale del sangue versato dagli angloamericani per sconfiggere il nazifascismo, ma ristabilire una verità a tutto tondo sulla vittoria alleata nel Mezzogiorno, dove i liberati furono violati dai liberatori, in una mistificazione dei ruoli tra aguzzini santificati e vittime zittite”. Il silenzio e la vergogna intorno a quegli episodi Di Fiore li ha respirati per anni nella sua famiglia acquisita, nella rassegnazione della zia Nannina, sartina del Frusinate rimasta signorina per espiare la colpa di aver perso l’innocenza a sedici anni per lo stupro di un soldato marocchino. Ma questo libro non ha niente di elegiaco o di intimistico: è un affresco puntuale e feroce delle violenze subite da un’intera nazione, taciute per anni in nome dell’acquiescenza dei vinti.
Comincia con la torva storia del reclutamento da parte degli americani dei mafiosi d’origine italiana, per fronteggiare l’offensiva nazifascista all’indomani del-l’attacco di Pearl Harbor. Col ritmo incalzante di un racconto di Mario Puzo, descrive la spietata trattativa tra Lucky Luciano, il capo dei capi sbattuto in galera e lì assurto al rango di dominus, e il controspionaggio americano in vista dello sbarco in Sicilia nel luglio 1943. Ricostruisce l’iniziale abbraccio tra la mafia e il Movimento indipendestina di Finocchiaro Aprile, e poi il ritiro dell’appoggio al separatismo da parte della mafia, che voleva darsi a politiche ben più ciniche, come dimostra la svolta nell’omicidio del bandito Giuliano. E ricorda il pregiudizio antitaliano degli Alleati che ancora grava come una tara sulla nostra autostima.
Il generale Patton, a capo della 45° divisione di fanteria, considerava i siciliani arretrati e violenti e diffidava degli italiani. Quando le truppe della VII armata sbarcano ad Agrigento, mentre gli inglesi dirigono verso Catania, incontrano l’opposizione della divisione Livorno con finti cannoni di legno piazzati lungo la costa. A Palermo, nominano sindaco l’ex podestà Paternò Castello marchese di San Giuliano, che aveva in casa le vecchie foto dei reali inglesi. In compenso, a Vittoria fucilano su due piedi il podestà di Acate Giuseppe Mangano, suo fratello, prima di sgozzare il figlio con la lama di una baionetta. Altra strage, all’aeroporto militare di Biscari, difeso dagli avieri del capitano Talente che tennero testa al nemico, fino alla resa sotto le bombe, andando incontro a una spietata esecuzione a freddo. “Kill the Italians” era la parola d’ordine dello sbarco. A Bari, capitale del governo Badoglio dopo la fuga del re, gli inglesi quattro mesi dopo il loro arrivo, fucilarono dopo un processo farsa il generale Nicola Bellomo, reo di aver dato l’ordine di sparare su due ufficiali britannici in fuga. Per tenere a bada gli italiani fedeli ai nazifascisti, gli Alleati allestirono vari campi di internamento, a Padula, Afragola, Taranto, ma anche Catania, Messina, Siracusa, destinati a ex fascisti, imprenditori come Achille Lauro, burocrati, professionisti, universitari, che vennero umiliati, seviziati con sveglie di notte e rasatura a zero, senza potersi difendersi, e sottoposti a una corte marziale inglese. Fu l’amnistia di Togliatti, nel giugno del ‘46, a porre fine ai processi di epurazione nei loro confronti. Ma adesso è questo libro a salvare i loro nomi dall’oblio.
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Rizzoli Editore, 358 pp., 19,00 euro



Ci ha abituato ad accogliere la versione dei vinti dell’unità d’Italia, superando il disprezzo per l’insipienza borbonica e per il brigantaggio. Adesso, tenta il salto nella storia contemporanea Gigi Di Fiore, trattando le stragi e i crimini dimenticati degli Alleati nel sud d’Italia. Il suo libro, però, non mira a rovesciare l’ortodossia con la denuncia del rimosso. E infatti, citando Javier Cercas difensore del revisionismo, l’autore dichiara subito il suo intento: “Non contestare il significato storico e morale del sangue versato dagli angloamericani per sconfiggere il nazifascismo, ma ristabilire una verità a tutto tondo sulla vittoria alleata nel Mezzogiorno, dove i liberati furono violati dai liberatori, in una mistificazione dei ruoli tra aguzzini santificati e vittime zittite”. Il silenzio e la vergogna intorno a quegli episodi Di Fiore li ha respirati per anni nella sua famiglia acquisita, nella rassegnazione della zia Nannina, sartina del Frusinate rimasta signorina per espiare la colpa di aver perso l’innocenza a sedici anni per lo stupro di un soldato marocchino. Ma questo libro non ha niente di elegiaco o di intimistico: è un affresco puntuale e feroce delle violenze subite da un’intera nazione, taciute per anni in nome dell’acquiescenza dei vinti.
Comincia con la torva storia del reclutamento da parte degli americani dei mafiosi d’origine italiana, per fronteggiare l’offensiva nazifascista all’indomani del-l’attacco di Pearl Harbor. Col ritmo incalzante di un racconto di Mario Puzo, descrive la spietata trattativa tra Lucky Luciano, il capo dei capi sbattuto in galera e lì assurto al rango di dominus, e il controspionaggio americano in vista dello sbarco in Sicilia nel luglio 1943. Ricostruisce l’iniziale abbraccio tra la mafia e il Movimento indipendestina di Finocchiaro Aprile, e poi il ritiro dell’appoggio al separatismo da parte della mafia, che voleva darsi a politiche ben più ciniche, come dimostra la svolta nell’omicidio del bandito Giuliano. E ricorda il pregiudizio antitaliano degli Alleati che ancora grava come una tara sulla nostra autostima.
Il generale Patton, a capo della 45° divisione di fanteria, considerava i siciliani arretrati e violenti e diffidava degli italiani. Quando le truppe della VII armata sbarcano ad Agrigento, mentre gli inglesi dirigono verso Catania, incontrano l’opposizione della divisione Livorno con finti cannoni di legno piazzati lungo la costa. A Palermo, nominano sindaco l’ex podestà Paternò Castello marchese di San Giuliano, che aveva in casa le vecchie foto dei reali inglesi. In compenso, a Vittoria fucilano su due piedi il podestà di Acate Giuseppe Mangano, suo fratello, prima di sgozzare il figlio con la lama di una baionetta. Altra strage, all’aeroporto militare di Biscari, difeso dagli avieri del capitano Talente che tennero testa al nemico, fino alla resa sotto le bombe, andando incontro a una spietata esecuzione a freddo. “Kill the Italians” era la parola d’ordine dello sbarco. A Bari, capitale del governo Badoglio dopo la fuga del re, gli inglesi quattro mesi dopo il loro arrivo, fucilarono dopo un processo farsa il generale Nicola Bellomo, reo di aver dato l’ordine di sparare su due ufficiali britannici in fuga. Per tenere a bada gli italiani fedeli ai nazifascisti, gli Alleati allestirono vari campi di internamento, a Padula, Afragola, Taranto, ma anche Catania, Messina, Siracusa, destinati a ex fascisti, imprenditori come Achille Lauro, burocrati, professionisti, universitari, che vennero umiliati, seviziati con sveglie di notte e rasatura a zero, senza potersi difendersi, e sottoposti a una corte marziale inglese. Fu l’amnistia di Togliatti, nel giugno del ‘46, a porre fine ai processi di epurazione nei loro confronti. Ma adesso è questo libro a salvare i loro nomi dall’oblio.

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