lunedì 19 dicembre 2011

La grande fuga dei capitali dall’euro-sud


Di Federico Rampini

Che l’euro si salvi o no, che l’uscita di qualche paese membro sia stata scongiurata o meno, un danno forse irrimediabile è già fatto. Il mercato unico dei capitali è defunto, affondato dalla sfiducia. L’Europa nordica ritira i suoi investimenti dai paesi mediterranei, con effetti di lungo periodo che ancora non si riescono a valutare. E’ un fuggi fuggi di capitali tedeschi, francesi, olandesi e scandinavi che abbandonano la fascia meridionale dell’Unione, Italia in testa. La diagnosi si conquista la prima pagina del Wall Street Journal, il titolo dell’inchiesta è “Disunione europea, i legami che tenevano insieme l’Europa si sciolgono”. I dati sono impressionanti, vengono da fonti ufficiali come l’associazione bancaria europea (Eba). Descrivono una colonna portante del mercato unico che si è sgretolata, distrutta dalla paura. Prendendo dell’Europa nordica solo quattro paesi come Germania, Francia, Austria e Olanda, le statistiche dell’associazione bancaria rivelano che ancora il 31 marzo 2010 gli investimenti dei loro istituti di credito in bond dei Piigs (Portogallo Italia Irlanda Grecia Spagna) sfioravano i 250 miliardi di euro. Un anno e mezzo dopo, cioè il 31 settembre 2011, si erano già dimezzati. E negli ultimi due mesi la fuga dei capitali nordici dall’Euro-sud si è accelerata. “E’ una vera e propria marcia indietro rispetto alla globalizzazione, una de-costruzione dell’unità europea sul fronte valutario”, dice Andrew Balls del gruppo Pimco, il più grosso gestore americano e mondiale di fondi comuni obbligazionari. Il top manager di Pimco osserva che “ciascuno sta ripiegando sul proprio mercato nazionale, ovviamente le banche devono continuare a investire in bond, ma ora vogliono detenere solo quelli del proprio paese o di nazioni omogenee”. E’ un colpo durissimo al mercato unico, è come se sul fronte degli investimenti la disintegrazione dell’euro fosse in parte già avvenuta. Lo conferma Carsten Brzeski, economista del colosso olandese Ing Bank ad Amsterdam: anche se i leader politici dovessero trovare una soluzione alla crisi attuale, “il pregiudizio nazionalista resisterà, gli investitori non dimenticano facilmente”. La disintegrazione in corso nel mercato unico è ancora più impressionante se la si osserva su un arco di tempo più lungo. Per esempio partendo dal 2007, l’ultimo anno “sereno” prima che avesse inizio la prima puntata della crisi (quella made in Usa). In quell’anno i bond dei Piigs detenuti dalle banche europee raggiunsero un record storico: 1.900 miliardi di dollari secondo le statistiche della Banca dei regolamenti internazionali di Basilea. Era il sestuplo rispetto al 2001: ecco misurato l’effetto-integrazione del mercato unico, la poderosa accelerazione degli investimenti in capitali all’interno dell’eurozona, alimentata dalla fiducia che nessun paese potesse uscire dall’euro o fare default. Rispetto a quel picco raggiunto nel 2007, nel giugno scorso c’era stato un tracollo del 44%. E dopo giugno la situazione è precipitata ulteriormente, in modo drammatico. Una spinta poderosa al “ritorno a casa” dei capitali nordici è venuta dalla decisione dell’authority bancaria europea di effettuare un secondo giro di “stress test”, gli esami speciali finalizzati a verificare lo stato di salute delle banche. Il nuovo giro di esami fu avviato il 26 ottobre scorso, e fu chiaro quale sarebbe stato l’impatto: un’operazione-verità doveva per forza svalutare i titoli di Stato italiani, spagnoli o greci detenuti nei portafogli degli istituti di credito. Quello stress test ha accelerato la pressione sulle banche tedesche, francesi e degli altri paesi nordici: occorreva liberarsi il più presto possibile dei bond “meridionali”, altrimenti avrebbero dovuto fare costose ri-capitalizzazioni per compensarne la perdita di valore. La Deutsche Bank è uno degli istituti citati per avere “ridotto in maniera sostanziale l’esposizione netta verso l’Italia”. L’intera associazione bancaria tedesca ha avvisato l’Eba che le nuove regole prudenziali comportano “un cambiamento fondamentale nella percezione del rischio sovrano”. Ovvero: per essere in regola con gli organi di vigilanza, con i propri azionisti e con i risparmiatori, un banchiere del Nordeuropa è praticamente costretto a ritirarsi dall’Euro-sud. Idem per i francesi, con Bnp Paribas che tra giugno e ottobre si è sbarazzata di oltre 8 miliardi di bond italiani. Il gruppo belga Kbc ha dimezzato il volume dei suoi investimenti nei paesi mediterranei. L’osservazione più drastica è quella del fondo pensioni del settore trasporti in Olanda, il cui gestore Patrick Groenendijk ha venduto la quasi totalità dei bond italiani, spagnoli e greci. Alla domanda su quando potrà tornare a investire in quei paesi, la sua risposta è stata: “Quando avranno le loro monete nazionali”.


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Di Federico Rampini

Che l’euro si salvi o no, che l’uscita di qualche paese membro sia stata scongiurata o meno, un danno forse irrimediabile è già fatto. Il mercato unico dei capitali è defunto, affondato dalla sfiducia. L’Europa nordica ritira i suoi investimenti dai paesi mediterranei, con effetti di lungo periodo che ancora non si riescono a valutare. E’ un fuggi fuggi di capitali tedeschi, francesi, olandesi e scandinavi che abbandonano la fascia meridionale dell’Unione, Italia in testa. La diagnosi si conquista la prima pagina del Wall Street Journal, il titolo dell’inchiesta è “Disunione europea, i legami che tenevano insieme l’Europa si sciolgono”. I dati sono impressionanti, vengono da fonti ufficiali come l’associazione bancaria europea (Eba). Descrivono una colonna portante del mercato unico che si è sgretolata, distrutta dalla paura. Prendendo dell’Europa nordica solo quattro paesi come Germania, Francia, Austria e Olanda, le statistiche dell’associazione bancaria rivelano che ancora il 31 marzo 2010 gli investimenti dei loro istituti di credito in bond dei Piigs (Portogallo Italia Irlanda Grecia Spagna) sfioravano i 250 miliardi di euro. Un anno e mezzo dopo, cioè il 31 settembre 2011, si erano già dimezzati. E negli ultimi due mesi la fuga dei capitali nordici dall’Euro-sud si è accelerata. “E’ una vera e propria marcia indietro rispetto alla globalizzazione, una de-costruzione dell’unità europea sul fronte valutario”, dice Andrew Balls del gruppo Pimco, il più grosso gestore americano e mondiale di fondi comuni obbligazionari. Il top manager di Pimco osserva che “ciascuno sta ripiegando sul proprio mercato nazionale, ovviamente le banche devono continuare a investire in bond, ma ora vogliono detenere solo quelli del proprio paese o di nazioni omogenee”. E’ un colpo durissimo al mercato unico, è come se sul fronte degli investimenti la disintegrazione dell’euro fosse in parte già avvenuta. Lo conferma Carsten Brzeski, economista del colosso olandese Ing Bank ad Amsterdam: anche se i leader politici dovessero trovare una soluzione alla crisi attuale, “il pregiudizio nazionalista resisterà, gli investitori non dimenticano facilmente”. La disintegrazione in corso nel mercato unico è ancora più impressionante se la si osserva su un arco di tempo più lungo. Per esempio partendo dal 2007, l’ultimo anno “sereno” prima che avesse inizio la prima puntata della crisi (quella made in Usa). In quell’anno i bond dei Piigs detenuti dalle banche europee raggiunsero un record storico: 1.900 miliardi di dollari secondo le statistiche della Banca dei regolamenti internazionali di Basilea. Era il sestuplo rispetto al 2001: ecco misurato l’effetto-integrazione del mercato unico, la poderosa accelerazione degli investimenti in capitali all’interno dell’eurozona, alimentata dalla fiducia che nessun paese potesse uscire dall’euro o fare default. Rispetto a quel picco raggiunto nel 2007, nel giugno scorso c’era stato un tracollo del 44%. E dopo giugno la situazione è precipitata ulteriormente, in modo drammatico. Una spinta poderosa al “ritorno a casa” dei capitali nordici è venuta dalla decisione dell’authority bancaria europea di effettuare un secondo giro di “stress test”, gli esami speciali finalizzati a verificare lo stato di salute delle banche. Il nuovo giro di esami fu avviato il 26 ottobre scorso, e fu chiaro quale sarebbe stato l’impatto: un’operazione-verità doveva per forza svalutare i titoli di Stato italiani, spagnoli o greci detenuti nei portafogli degli istituti di credito. Quello stress test ha accelerato la pressione sulle banche tedesche, francesi e degli altri paesi nordici: occorreva liberarsi il più presto possibile dei bond “meridionali”, altrimenti avrebbero dovuto fare costose ri-capitalizzazioni per compensarne la perdita di valore. La Deutsche Bank è uno degli istituti citati per avere “ridotto in maniera sostanziale l’esposizione netta verso l’Italia”. L’intera associazione bancaria tedesca ha avvisato l’Eba che le nuove regole prudenziali comportano “un cambiamento fondamentale nella percezione del rischio sovrano”. Ovvero: per essere in regola con gli organi di vigilanza, con i propri azionisti e con i risparmiatori, un banchiere del Nordeuropa è praticamente costretto a ritirarsi dall’Euro-sud. Idem per i francesi, con Bnp Paribas che tra giugno e ottobre si è sbarazzata di oltre 8 miliardi di bond italiani. Il gruppo belga Kbc ha dimezzato il volume dei suoi investimenti nei paesi mediterranei. L’osservazione più drastica è quella del fondo pensioni del settore trasporti in Olanda, il cui gestore Patrick Groenendijk ha venduto la quasi totalità dei bond italiani, spagnoli e greci. Alla domanda su quando potrà tornare a investire in quei paesi, la sua risposta è stata: “Quando avranno le loro monete nazionali”.


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