lunedì 7 marzo 2011

Con lo sciopero della messa i preti del Sud sfidano Cavour


I parroci partenopei infuriati per la legge sui beni ecclesiastici. Ma Roma ammonisce: celebrare è un obbligo. A Parigi va subito esaurita la prima edizione di un opuscolo provocatorio sui rapporti tra l'Italia e la Santa Sede


di NELLO AJELLO


ROMA -
È uscito ieri a Parigi un opuscolo intitolato La Francia, Roma e l'Italia. Il tema, trattato in maniera didascalica ma insieme provocatoria, sono i rapporti fra la rivoluzione italiana e la Santa Sede, alla luce della funzione di arbitro che esercita al loro interno, fra difficoltà sempre crescenti, l'impero transalpino. L'autore è un patrizio francese, il visconte Louis-Etienne-Arthur Laguéronnière, ma si lascia intendere che il testo sia stato approvato da Napoleone III. Era proprio ciò che mancava ad acuire i sospetti e il malcontento delle alte sfere vaticane rispetto alla tutela, ormai giunta all'apice dell'ambiguità, che la Francia si è assunta in merito alle ambizioni dell'Italia su Roma. Si racconta che, in meno di un'ora, la prima edizione, mille copie, sia andata esaurita.

Un giornale di Parigi, La Patrie, che esprime l'opinione del governo, tenta di attenuare la drastica impressione che il libello ha suscitato fra Parigi, Torino e la Capitale vaticana: non si tratterebbe dell'annuncio di un allentamento di quell'alleanza fra le Tuileries e i Sacri Palazzi che ha tenuto finora in bilico la situazione sorreggendo le speranze della Curia di sottrarsi alla ventata di liberalismo che percorre la penisola. Si esclude che il governo francese tenda ad abbandonare il potere temporale del Papa, o ciò che ne resta, ritirando da Roma le proprie truppe. Si pensa piuttosto a un'intesa fra il nuovo Stato italiano e le antiche prerogative della Chiesa: se riusciranno a coniugare queste esigenze - peraltro opposte - l'Italia e il papato troveranno in tale unione la propria grandezza. Auspicio facile da formularsi.
È noto che al vertice dell'impero austriaco si minaccia, in caso di richiamo delle truppe francesi da Roma, di mandarvi un proprio contingente per scoraggiare - così sostiene, e non solo in Italia, la stampa legittimista - l'aggressività della nuova Italia. Tutto questo non fa che acuire l'intransigenza di Pio IX, ai cui occhi è intollerabile che Napoleone III metta sullo stesso piano i valori spirituali di cui il Pontificato è depositario e le velleità di conquista da parte di una potenza geograficamente periferica qual è il Piemonte. Sembra a Roma, per essere più concreti, un'eresia il fatto che l'Impero francese attribuisca lo stesso valore al diritto del Papa alla propria autonomia territoriale e ai presunti diritti dell'Italia "sopra Roma".

Intanto, attraverso tramiti sempre più complessi che coinvolgono, accanto all'abate Carlo Passaglia, altri prelati come il siciliano don Salvatore Aguglia - vicinissimo al cardinale Antonelli - e il padre Molinari, confidente di Cavour, le trattative per raggiungere l'ideale di una "libera Chiesa in libero Stato" sembrano fermarsi al livello di agitazione più che di progetto. Mentre, un po' in tutti i paesi europei, l'episcopato grida al sacrilegio si racconta, oltre tutto, di un pontefice preoccupato per l'ormai radicata presenza in Roma di Francesco II, il quale vede la propria posizione vacillare al minimo accenno d'una trattativa della Santa Sede con il Piemonte, e inclina a privilegiare, tra i propri favoriti, personaggi non immuni da collusioni con il brigantaggio.

Un garbuglio diplomatico che di sacro non ha che l'apparente unzione. L'eco delle lettere che Cavour si scambia con padre Passaglia è diventata una specie di "mattinale" quotidiano. Scrutato nei giornali, questo gioco che impegna patrioti, dignitari ecclesiastici e depositari di Imperi può apparire eccitante nella sua problematicità. Purché se ne intraveda una conclusione. La primavera italiana assume, a tratti, le tinte sfumate d'un enigma.

Al suo punto d'arrivo, cioè nei rapporti fra preti e fedeli, la controversia che oppone la Chiesa all'Italia produce quotidiani stridori. A Napoli, taluni parroci si rifiutano di dire messa, sostenendo che, con la nuova legge sui beni ecclesiastici, il governo s'è impossessato dei redditi - detti "benefìcii" - di cui godevano le comunità sacerdotali. Il Consigliere per gli affari ecclesiastici ha diramato ai Diocesani, cioè ai capi delle comunità religiose, una circolare nella quale raccomanda l'obbligo di far celebrare, "come per lo passato", messe ed altre cerimonie. Avverte i rettori delle varie congregazioni che la Cassa Ecclesiastica è disposta a rifondere tutte le spese sostenute "nei limiti del solito finora praticato", per l'acquisto di ostie, vino, incenso, rammendo di stole, paramenti e così via. Un santo compromesso di cui è incerto l'esito. Anche perché appaiono lampanti e minacciose le implicazioni politiche di simili recriminazioni religiose. La cronaca di vita cittadina, intanto, registra l'apertura del primo asilo infantile.
La Guardia nazionale di Portici, a ridosso di Napoli, ha scoperto affissi sulle mura alcuni cartelli intestati al "Popolo delle due Sicilie". Il breve testo così si conclude: "In nome dell'Onnipotente, leviamoci in massa, armiamoci e schiacciamo i perfidi nostri nemici. Viva Iddio, viva l'Immacolata Vergine, viva Francesco II!"

Dall'Inghilterra, infine, giunge voce del discorso del marchese di Normanby pronunciato il primo marzo alla Camera dei Lord: l'aristocratico tuona contro l'Unità d'Italia. Il nuovo Regno viene difeso, però, da altri nobili britannici come Lord Woodhouse e Lord Lenover. Quest'ultimo elogia lo spirito pubblico italiano favorevole alla Gran Bretagna.

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I parroci partenopei infuriati per la legge sui beni ecclesiastici. Ma Roma ammonisce: celebrare è un obbligo. A Parigi va subito esaurita la prima edizione di un opuscolo provocatorio sui rapporti tra l'Italia e la Santa Sede


di NELLO AJELLO


ROMA -
È uscito ieri a Parigi un opuscolo intitolato La Francia, Roma e l'Italia. Il tema, trattato in maniera didascalica ma insieme provocatoria, sono i rapporti fra la rivoluzione italiana e la Santa Sede, alla luce della funzione di arbitro che esercita al loro interno, fra difficoltà sempre crescenti, l'impero transalpino. L'autore è un patrizio francese, il visconte Louis-Etienne-Arthur Laguéronnière, ma si lascia intendere che il testo sia stato approvato da Napoleone III. Era proprio ciò che mancava ad acuire i sospetti e il malcontento delle alte sfere vaticane rispetto alla tutela, ormai giunta all'apice dell'ambiguità, che la Francia si è assunta in merito alle ambizioni dell'Italia su Roma. Si racconta che, in meno di un'ora, la prima edizione, mille copie, sia andata esaurita.

Un giornale di Parigi, La Patrie, che esprime l'opinione del governo, tenta di attenuare la drastica impressione che il libello ha suscitato fra Parigi, Torino e la Capitale vaticana: non si tratterebbe dell'annuncio di un allentamento di quell'alleanza fra le Tuileries e i Sacri Palazzi che ha tenuto finora in bilico la situazione sorreggendo le speranze della Curia di sottrarsi alla ventata di liberalismo che percorre la penisola. Si esclude che il governo francese tenda ad abbandonare il potere temporale del Papa, o ciò che ne resta, ritirando da Roma le proprie truppe. Si pensa piuttosto a un'intesa fra il nuovo Stato italiano e le antiche prerogative della Chiesa: se riusciranno a coniugare queste esigenze - peraltro opposte - l'Italia e il papato troveranno in tale unione la propria grandezza. Auspicio facile da formularsi.
È noto che al vertice dell'impero austriaco si minaccia, in caso di richiamo delle truppe francesi da Roma, di mandarvi un proprio contingente per scoraggiare - così sostiene, e non solo in Italia, la stampa legittimista - l'aggressività della nuova Italia. Tutto questo non fa che acuire l'intransigenza di Pio IX, ai cui occhi è intollerabile che Napoleone III metta sullo stesso piano i valori spirituali di cui il Pontificato è depositario e le velleità di conquista da parte di una potenza geograficamente periferica qual è il Piemonte. Sembra a Roma, per essere più concreti, un'eresia il fatto che l'Impero francese attribuisca lo stesso valore al diritto del Papa alla propria autonomia territoriale e ai presunti diritti dell'Italia "sopra Roma".

Intanto, attraverso tramiti sempre più complessi che coinvolgono, accanto all'abate Carlo Passaglia, altri prelati come il siciliano don Salvatore Aguglia - vicinissimo al cardinale Antonelli - e il padre Molinari, confidente di Cavour, le trattative per raggiungere l'ideale di una "libera Chiesa in libero Stato" sembrano fermarsi al livello di agitazione più che di progetto. Mentre, un po' in tutti i paesi europei, l'episcopato grida al sacrilegio si racconta, oltre tutto, di un pontefice preoccupato per l'ormai radicata presenza in Roma di Francesco II, il quale vede la propria posizione vacillare al minimo accenno d'una trattativa della Santa Sede con il Piemonte, e inclina a privilegiare, tra i propri favoriti, personaggi non immuni da collusioni con il brigantaggio.

Un garbuglio diplomatico che di sacro non ha che l'apparente unzione. L'eco delle lettere che Cavour si scambia con padre Passaglia è diventata una specie di "mattinale" quotidiano. Scrutato nei giornali, questo gioco che impegna patrioti, dignitari ecclesiastici e depositari di Imperi può apparire eccitante nella sua problematicità. Purché se ne intraveda una conclusione. La primavera italiana assume, a tratti, le tinte sfumate d'un enigma.

Al suo punto d'arrivo, cioè nei rapporti fra preti e fedeli, la controversia che oppone la Chiesa all'Italia produce quotidiani stridori. A Napoli, taluni parroci si rifiutano di dire messa, sostenendo che, con la nuova legge sui beni ecclesiastici, il governo s'è impossessato dei redditi - detti "benefìcii" - di cui godevano le comunità sacerdotali. Il Consigliere per gli affari ecclesiastici ha diramato ai Diocesani, cioè ai capi delle comunità religiose, una circolare nella quale raccomanda l'obbligo di far celebrare, "come per lo passato", messe ed altre cerimonie. Avverte i rettori delle varie congregazioni che la Cassa Ecclesiastica è disposta a rifondere tutte le spese sostenute "nei limiti del solito finora praticato", per l'acquisto di ostie, vino, incenso, rammendo di stole, paramenti e così via. Un santo compromesso di cui è incerto l'esito. Anche perché appaiono lampanti e minacciose le implicazioni politiche di simili recriminazioni religiose. La cronaca di vita cittadina, intanto, registra l'apertura del primo asilo infantile.
La Guardia nazionale di Portici, a ridosso di Napoli, ha scoperto affissi sulle mura alcuni cartelli intestati al "Popolo delle due Sicilie". Il breve testo così si conclude: "In nome dell'Onnipotente, leviamoci in massa, armiamoci e schiacciamo i perfidi nostri nemici. Viva Iddio, viva l'Immacolata Vergine, viva Francesco II!"

Dall'Inghilterra, infine, giunge voce del discorso del marchese di Normanby pronunciato il primo marzo alla Camera dei Lord: l'aristocratico tuona contro l'Unità d'Italia. Il nuovo Regno viene difeso, però, da altri nobili britannici come Lord Woodhouse e Lord Lenover. Quest'ultimo elogia lo spirito pubblico italiano favorevole alla Gran Bretagna.

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